La diffusione globale di mezzi e piattaforme di comunicazione, che permeano oramai le vite di ciascuno, ha reso facile partecipare a ogni livello della vita collettiva, che si parli di ricette di cucina, di politica internazionale o di città e delle sue dinamiche. Non che il tema della partecipazione in campo architettonico e urbano sia di per sé una novità: ci sono state nel passato stagioni di un certo successo, e figure che ne hanno veicolato lo spirito democratico, salvo poi ricomprenderne gli esiti grazie all’autorevolezza che ancora poteva incarnare la professione di architetto. E oggi?
Mentre guru e paraguru alimentano il culto delle loro personalità sui rispettivi profili social, nel piccolo di borghi, quartieri e città non restano che le piattaforme digitali a raccogliere sfoghi e opinioni di chi abbia qualcosa da dire sul proprio ambito territoriale, nel bene o nel male: e a dire il vero, anche di chi non ha nulla da dire, ma lo dice lo stesso. In fondo, non è che la versione aggiornata e pantofolara di quelle vecchie riunioni in qualche saletta di circoscrizione o circolo sociale attorno a eliocopie dall’odore ammorbante, pennarelli o matite colorate alla mano (più di recente tanti bei post-it colorati), a disegnar velleitarie idee destinate a tanti complimenti e alle profondità di qualche ascoso cassetto.
La chiamata a essere parte attiva dei processi che interessano la città, manifestando bisogni e suggerimenti, parte da presupposti lodevoli, che però rischiamo di finire nel vicolo cieco di mille piccolezze, tra una visione ombelicale e una spasmodica attenzione al proprio orticello. Ad essere buoni, quello che si vede nei contenitori di questo tipo non sono altro che disarmanti banalità, frutto di un qualunquismo che lascia il tempo e lo spazio che trova. Fatte salve le giuste segnalazioni di buche nei marciapiedi da sistemare, quando si sale di livello dare voce all’incompetenza diventa un azzardo. Proposte aliene dal regime dei suoli e delle proprietà, dal minimo discernimento tra competenze e spettanze tra pubblico e privato, rivendicazioni urlanti e generiche che, dal particolarismo, non possono comprendere logiche di scala ed equilibri territoriali. Per esempio: facile e per molti aspetti legittimo rivendicare un parco, soprattutto da parte di chi vive in quartieri che sono al di sotto degli standard qualitativi delle parti più attrezzate della città. Ma proviamo a pensare a un bilancio tra chi dovrebbe farsi carico dei costi, sia di impianto che di esercizio – la parte pubblica, ovviamente – e i benefici in termini di plusvalore immobiliare ingenerato dalle migliorate condizioni urbane, che tornerebbero interamente a vantaggio dei privati. Signori comitati urlanti e pretendenti, facciamo quattro conti?
In tutto ciò, quello che passa in secondo piano è il tema della competenza. Non si può intendere la partecipazione come cessione di una delega sulle scelte, che necessitano invece di capacità analitica di discernimento, visione in profondità e lunghezza. Evviva l’architettura partecipata, però non sembra di sentir parlare di medicina partecipata, o di giurisprudenza partecipata, eppure la salute e la giustizia riguardano tutti: ma medici e avvocati hanno un ruolo ben riconosciuto, senza sconti.
Certo, i soggetti che abitano la città e gli spazi di vita sono gli attori di ogni trasformazione, e in quanto tali non si può pensare a una messa in scena – un qualunque progetto, metaforicamente parlando – fatto solo da un conciliabolo di registi, scenografi e tecnici. Ma al tempo stesso non si può pensare che le velleità di protagonismo degli attori, o la loro incapacità a muoversi sul palco senza conoscere le regole, possa arrivare fino a confondere e mescolare ruoli. Vero è che gli amministratori di quel gran teatro che è ogni città guardano al botteghino, ovvero al consenso: ma non si possono demandare il governo del territorio o le scelte su ciascun progetto al televoto o al numero dei like. Occorre saper interrogare i luoghi, scavare oltre la superficie del chiacchiericcio digitale: la potestà sullo spazio urbano non può abdicare, in nome di un grazioso intrattenimento sociale, a una seria metodologia condotta da professionisti qualificati.
Che certo non mancano, anche se l’autorevolezza della figura dell’architetto ha vissuto tempi migliori, non c’è da nasconderlo. Per questo occorre uno sforzo collettivo per rivendicare con decisione il valore della professionalità rispetto all’improvvisazione e all’elogio dell’incompetenza. Ci vorrebbe forse un Archi-pride, tutti a sfilare belli in tenuta da architetto-figo: il nero è d’obbligo, e per la colonna sonora si accettano consigli. •