Da quando il sistema dei crediti formativi professionali è entrato in vigore per la nostra categoria, schiere di architetti più o meno fintamente interessati vagolano di convegno in convegno, di corso in corso in incontro tecnico, alla caccia degli agognati “punti” da accumulare. Come orsi attratti dal miele, escono così dalle tane dei rispettivi studi personaggi che credevamo dispersi, colleghi dei banchi di scuola mai più rivisti: saranno rimasti incagliati nelle secche dell’università, o saranno espatriati? E invece, rieccoli: ci ritroviamo e ci vogliamo tutti bene, accomunati da uno nuovo fondamentale collante professionale e sociale: “ma a te, quanti punti mancano?”.
Il credito, i crediti. Eppure c’era un tempo in cui questo termine designava fiducia, stima e prestigio: cose che non si possono accumulare se non con la forza del proprio lavoro, l’impegno, la costanza e la ricerca. Nel campo dell’architettura, merci preziose da far maturare coi tempi lunghi che le trasformazioni dello spazio fisico richiedono. Tempo che invece non c’è: anno per anno bisogna far su punti, crediti da aggiungere alla “raccolta”: senza nemmeno la soddisfazione della pentola antiaderente in omaggio, una volta completato l’album (e una elegante trapunta in lana Merino per i crediti deontologici?).
Il panorama dell’offerta formativa è però al tempo stesso desolante e imbarazzante. Un florilegio di marchettoni industriali passa sotto le mentite spoglie dei crediti come attività formativa, equiparando con disinvoltura inserzione pubblicitaria e formazione, promozione commerciale e crescita professionale. Il mercimonio delle prebende formative ha generato un fiorente mercato di elargitori di crediti, nelle assortite forme che il regolamento che le disciplina consente. Ottime opportunità di guadagno anche per gli ammaestratori di scimmiette, che tanto basta fare click ogni tanto davanti al PC, seguendo il famigerato e-learning, ed è bella che fatta: punti guadagnati, credito raggiunto, discredito del sistema al massimo grado.
Con gli Ordini periferici a far da passacarte, tutto è vidimato e garantito da “Roma creditona”, dove un gigantesco ganglio nervoso centrale tiene a bacchetta i sudditi-architetti che, a capo chino, non possono che subire il conteggio: chi ha i punti passa al giro di giostra successivo, gli altri tornano al via!, riparano, recuperano, o verranno additati come reietti, puniti, espulsi, messi al bando professionale e previdenziale e deontologico (!) e morale…
L’organo più sollecitato in questa ricerca del credito è uno dei più nobili seppur vituperati: il sedere. Ché basta per l’appunto starsene seduti per un tot di ore a fingere di ascoltare una qualunque delle proposte à la carte, e i punti van su: che ci si trovi al cospetto di un Pritzker Prize o di un qualunque contaballe sulle case di balle di paglia. Otto punti otto per un corso intensivo sul Feng Shui: si, avete capito bene, il Feng Shui. Non è bastato Bruce Chatwin nelle memorabili pagine di Che ci faccio qui? a mettere in ridicolo senza tema di smentita stregoni e fattucchieri dalla credibilità improbabile. Non si fa credito a nessuno, dicevano cartelli di mano incerta nelle botteghe di una volta: e invece noi, gli architetti, ci facciamo dare i crediti da tutti. Credito o discredito?
Il ruolo sociale di una professione per lo più svilita non si recupera certo con una lezioncina sulla calce o roba del genere. Fiducia, stima e prestigio, si diceva: dovremmo investire le nostre energie per far sì che alla crescita individuale – che è un fatto di coscienza, non di ore perse tra una firma del registro e l’altra – possa essere affiancato un impegno concreto nel pensare a migliorare i luoghi, recuperare i segni della storia e del paesaggio, gettare semi di urbanità, di convivenza civile e di bellezza. Daremmo credito al ruolo dell’architetto, ponendo le basi di una nostra azione più incisiva e creando nuove occasioni di progetto.
Toc toc, Cnappc: ci pensiamo?