Spazio libero

A partire dalla rituale suggestione proposta dall’edizione corrente della Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia

Sia pure nella necessaria declinazione anglofila che il respiro internazionale della veneranda manifestazione richiede, il Freespace a cui è intitolata la 16ma Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia sollecita alcune riflessioni sul senso letterale di questo spazio libero: sulle sue forme e declinazioni, sulla sua presenza o piuttosto sulla necessità di crearlo. Accogliamo dunque, a esposizione ancora aperta, l’invito delle generose curatrici biennalesche a tradurre questo termine-manifesto, cercandone i segni e le ragioni attraverso una mappatura che “ci permetta di sondare le aspirazioni, le ambizioni e la generosità dell’architettura”. Dove trovare dunque questi “esempi di generosità e di sollecitudine nell’architettura”? Una bella sfida.

Sulla mostra in sé sospendiamo il giudizio per lasciar modo a ciascuno di visitarla senza spoilerare alcunché: ma sono segreti di Pulcinella (o di Arlecchino, per restare sulla maschera veneziana per antonomasia). Come sempre, viste le dimensioni ciclopiche dell’esposizione, c’è il bello e il buono ma anche il cattivo tempo. Facile prendersela con la direzione, in questo caso le due direttrici d’orchestra, e girovagando tra Giardini e Arsenale si sente nell’aria l’immancabile giudizio che “quella prima era meglio”: ma alla fin fine torniamo tutti lì, “perché la Biennale è la Biennale” (o era Sanremo?).

Il grande e festoso caravanserraglio lagunare rimane un appuntamento rituale, uno spazio libero a prescindere, aperto all’incontro e al confronto: ma appare sempre più evidente la difficoltà e lo stridente contrasto tra la velleità di rappresentare lo stato dell’arte al presente e la diffusione planetaria di ogni architettura attraverso le sue immagini ubiquitarie, tanto che si finisce per ritrovare in mostra il già visto grazie a siti, portali, Instagram e compagnia bella. Lo stato presente pare già un passato prossimo, rinnovando nell’accelerazione turbinosa del nostro tempo quella “presenza del passato” che segnò proprio da Venezia il trionfo della stagione Post-Modern (avvertenza ai lettori: dopo anni di oblio e dannazione, sta arrivando la rivalutazione critica del Po-Mo: rispolverate facciate a cremino, timpani e colonne oversize, assieme alle giacche con le spalline imbottite!).

L’idea curatoriale della mostra diviene pertanto sempre più determinante: tanto è più lasca e generica e onnicomprensiva, tanto più rischia di lasciare poco il segno. Una considerazione, questa, che dall’occasione biennalesca può essere fatta valere a maggior ragione per il ruolo dell’editoria specializzata, e diventa quindi una sorta di autocoscienza in pubblico del senso di una rivista. Proviamo a fare un ciclico punto ombelicale: nel suo piccolo ambito di riferimento, «AV» ambisce a sua volta ad essere uno spazio libero, che con perseveranza si sforza di includere temi e luoghi, autori e progettisti, contributi e sguardi, rifuggendo dall’idea di un impossibile taglio critico ‘di tendenza’ e correndo il rischio dell’eclettismo nel rappresentare nel bene e nel male – anzi nel benissimo e nel benino, il male cerchiamo di escluderlo – ciò che il nostro territorio offre. Aspirazioni, ambizioni e generosità, suggeriscono di mettere in evidenza le dublinesi architette Grafton nel loro passaggio per Venezia: vogliamo pensare che siano le qualità degli esempi concreti che mostriamo, senza la pretesa che siano capolavori né prodotti di archistelline. Vorremmo trovare il modo di dare libero spazio all’architettura civile, quella nella quale una comunità si riconosce in quanto tale: ma da tempo si fatica a trovarne le tracce. Nel contesto urbano, una libertà vigilata tende a prendere il posto dello spazio pubblico, che per definizione è libero e condiviso, o quanto meno dovrebbe esserlo: come le strade (salvo i pedaggi), i parchi (salvo cancellate e recinti) e le piazze (salvo dissuasori e controlli diventati ahinoi necessari).

Ma l’ideale di libertà si manifesta soprattutto come libertà di espressione. Il 1° gennaio 1941, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt rivolse ai suoi cittadini il celebre discorso delle “Quattro libertà”: libertà di parola e di espressione, libertà di culto, libertà dal bisogno e libertà dalla paura. Fatte le dovute similitudini e differenze, possiamo trarne questo auspicio: al di là della rispondenza agli usi e alle prestazioni, ogni spazio è libero quando è libera la sua espressione, ed è frutto di un pensiero autentico e generoso attento alla qualità dello spazio che genera, ai modi di vita che determina, al riverbero che ogni architettura trasmette sul contesto in cui è posta, infine all’eredità che lasciamo con ogni trasformazione del territorio. Un obiettivo che riassume entro una dimensione esistenziale quello che i due termini apparentemente antitetici di spazio (concreto) e libertà (astratta) sottendono.

Un traguardo che anche l’occasione di una mostra come il rituale appuntamento veneziano può portare a galla, non solo per vedere quanto alcuni dei protagonisti sono stati bravi – ciascuno sceglierà i propri eroi e modelli – ma per rinnovare quella scommessa, o speranza (o illusione?) che l’architettura possa cambiare il mondo, contribuendo a generare un pezzetto di spazio più libero. Intanto, ci proviamo con qualche pezzetto di carta. •