
Misura per misura
Sconvolgimenti globali e declinazioni locali con le quali si mettono alla prova le discipline del progetto
Come per tutti e come dappertutto – mai il senso della globalizzazione è parso più evidente che a seguito della pandemia con cui abbiamo imparato a confrontarci a partire da questa primavera– la misura della distanza tra le persone è diventata la regola di tutte le cose e attività umane. Non fa certo eccezione il microcosmo attorno al quale concentriamo la nostra attenzione: l’obbligatoria distanza cosiddetta sociale sembra stendere una matrice isotropa sugli spazi, pubblici o di uso pubblico. Ecco i bollini che misurano il passo da tenere, reticolo di sicurezza che pietosamente stendiamo a garanzia – o meglio, a speranza – di evitare il rischio del contagio. Slanci vitali, abbracci e strette di mano sono banditi: ogni nostra azione è frenata, controllata, misurata.
Impariamo così a confrontarci con la nuova topografia del terrore pandemico. La densità di vita, principio di aggregazione delle città, vive una profonda crisi epistemologica, che in un modo o nell’altro ci dovrà spingere a ripensare al modo di abitare gli spazi. Lo spazio collettivo, all’aperto o al chiuso, che ha sempre avuto un valore di addensatore sociale e di luogo dell’incontro, viene ora misurato per la sua capacità di tenerci a distanza: se è grande, riusciamo a intrattenere rapporti a debita distanza, come pedine sulla scacchiera gigante di una partita in cui rischiamo uno scacco matto. Tortuose vie monodirezionali instradano i percorsi di automi eterodiretti da frecce sul pavimento, come i robot decerebrati di un universo distopico. In parallelo, l’improvvisa svolta smart del lavoro ha reso tutto d’un tratto obsoleti e surdimensionati gli spazi del lavoro (almeno di quello sedentario), mentre di contro le dimensioni minime delle abitazioni reclamano spazi per l’home office e aree vivibili all’aperto. Le antenne sensibili del mercato immobiliare sembrano aver già registrato queste tendenze, che inevitabilmente andranno a ricadere anche sui tavoli da disegno dei progettisti. Vedremo.
Fin qui, dunque, la sfida globale che giocoforza si declina anche nella nostra chiave locale. Occorre prendere le misure di questa realtà come di un nuovo scenario sul quale il progetto, ogni progetto, deve fare i conti. Così come di progetto occorre parlare quando, a fronte di un ulteriore sconvolgimento ambientale – i ripetuti fortunali che hanno infierito in particolare su Verona nei mesi scorsi – il panorama cambia di segno. E non è una metafora, se andiamo a rivedere la strage di alberi abbattuti in città, lungo le strade, nei parchi e nei giardini. Tempi duri anche per le amiche piante: se non bastassero le “loro” malattie endemiche, che colpiscono specie di volta in volta caratterizzanti i luoghi, dai platani ai cipressi, dalle palme agli ulivi (e per ora ci fermiamo qui), è la furia degli elementi a stravolgere equilibri pluri decennali e a disvelare la fragilità di tronchi apparentemente solidi, o l’esilità di apparati radicali che all’improvviso non ce la fanno più a restare aggrappati a madre terra.
I tronchi-cadavere che ancora vediamo popolare strade e giardini di Verona evocano simbolicamente le immagini più drammatiche legate alla diffusione della pandemia: un evento imprevisto e incontrollabile ha scosso alle radici, letteralmente, quelle che sembravano certezze incrollabili. Brani di paesaggio che sembravano immutabili sono ora più spogli o addirittura denudati, svelando l’intima fragilità di un equilibrio che non può che essere pro tempore. Ci si dimentica spesso, infatti, che gli alberi non sono natura inviolabile, bensì paesaggio costruito, elementi di un ciclo temporale che ha un inizio e inevitabilmente una fine. Senza esagerare in una umanizzazione fumettistica, possiamo pensare a ogni albero come a un individuo, e quindi per forza di cose perituro. Stracciarsi le vesti per il taglio di piante danneggiate, o perché finalmente sull’onda dell’emergenza si è fatta una verifica sullo stato di salute di esemplari vetusti? Un esercizio di conservatorismo sterile e inconcludente: piuttosto, chiediamoci cosa stiamo facendo per la manutenzione del verde, e soprattutto per dare asilo a nuove piante, impiantare filari, disegnare giardini e ricreare aree boscate anche in città. Qual è il progetto? Un albero vetusto deve essere abbattuto perché ammalato o a rischio di stabilità? Niente piagnistei, se ne piantino a compensazione altri dieci, venti, cento. Ce li ricordiamo i bei viali alberati che risvegliano gli animi a primavera, regalano ombra tonificante d’estate e colorano gli sguardi autunnali? Da quanto tempo non se ne impiantano?
Viviamo di rendita, dal momento che abbiamo avuto un’eredità talmente cospicua in fatto di verde da far sembrare poca cosa ogni sua perdita. Eppure gli squilibri ecologici che stiamo vivendo sono dei campanelli d’allarme che non possono restare inascoltati: ne abbiamo prova evidente sulle nostre persone e sulle nostre città.
Certo, anche a questo riguardo la misura delle cose è globale e non si può pensare di risolverla nel nostro piccolo, ma tanto meno si può eluderla. Già in alcune metropoli si propongono massicce cure del verde a base di forestazioni urbane, raggi verdi, compensazioni green, eccetera, fino a farne persino il manifesto di un marketing architettonico degli edifici. C’era una volta lo standard dei tot metri quadrati di verde per abitante, che veniva in realtà fatto quadrare computando le più spelacchiate delle aiuole. Al di là del dato quantitativo relativo alla superficie, c’è una notevole differenza tra un prato e una massa arborea: chissà che l’urbanistica del futuro presente, o comunque la maniera di amministrare le città e i territori,non passi – anche nel nostro microcosmo veronese – per una misura draconiana capace di mettere al centro dei processi sul costruito le piante – e l’ambiguità con le planimetrie orizzontali è del tutto intenzionale. Sia l’ambiente che il paesaggio lo richiedono, l’uno e l’altro a giovamento della vita urbana e dei suoi abitanti. •