Ceci n’est pas une fenêtre

Un’architettura degli interni che esalta il rapporto visuale con il luogo e compendia un proficuo dialogo tra progettisti e artisti

Testo: Roberto Carollo
Foto: Filippo Belletti
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Oggigiorno, diciamoci la verità, la parola “paesaggio” viene citata con una frequenza quasi ossessiva. Tanto da risultare, talvolta, irritante. Convegni, eventi, festival, saggi ed articoli non fanno che parlarne, nelle più varie e fantasiose declinazioni, più o meno pertinenti: scopriamo “paesaggi in movimento”, “paesaggi condivisi”; “paesaggi dello scarto” e “del riciclo”; “paesaggi interiori”, “paesaggi sonori” e gli immancabili “paesaggi del gusto”. La faccenda non può che suscitare una certa inquietudine. E qualche sospetto.

Poiché, se da un lato questo fenomeno incoraggia l’impressione che la nostra società (e mi riferisco, in primo luogo, al contesto nazionale) abbia ormai maturato un sensibilità diffusa sull’argomento – con buona pace dei vari Antonio Cederna, Eugenio Turri, Salvatore Settis e delle loro infaticabili battaglie culturali – dall’altro, insinua il ragionevole dubbio che se ne parli con un atteggiamento ingenuo, se non scaramantico; consapevoli dell’immenso patrimonio storico, architettonico, artistico e naturale che nell’ultimo secolo abbiamo perduto, insieme alla nostra identità, con la diffusione di modelli culturali sempre più omogeneizzati ed oggi, globalizzati. O peggio ancora con malizia ed ipocrisia, per nascondere qualche cattiva intenzione o qualche altrettanto cattiva azione, perlopiù riconducibili al “grande ventre” di una speculazione immobiliare bulimica ed irresponsabile.
Senza voler impartire lezioni a nessuno, su cosa sia o non sia e su cosa rappresenti la nozione di “paesaggio” nel contesto contemporaneo, possiamo tuttavia affermare con un certo sollievo come questo progetto di Gigi Marastoni e Loretta Sacconelli sia in grado di riconciliarci con quella che riteniamo esserne la natura e l’essenza. Che ha a che fare in primo luogo con l’aisthesis, con la percezione e con la sensorialità. Anzi, con un senso sopra a tutti gli altri: la vista! La visione, la “veduta”… In quanto esito dell’incontro tra l’io, soggettivo, ed il mondo. Ma che, proprio per questo, non può permettersi di perdere il contatto con la sua materialità, con la “fisicità”.

Perché è proprio in questa relazione tra l’occhio e la mente, e viceversa, che il nostro mestiere di architetti o, quantomeno, gli architetti della mia generazione – per quanto in crisi d’identità e con seri problemi di riconoscimento sociale – ha fondato la propria “sapienza” e le proprie prerogative.
Certo, non è qui in discussione come il paesaggio – quantomeno quello europeo e quello italiano, in particolare – sia esito del concorso di fenomeni naturali quanto di processi storici, culturali, antropologici, sociali, economici, produttivi. Come sottolinea il legislatore nel Codice dei beni culturali e del paesaggio con la definizione «territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni» (D.Lgs. 42/2004; art. 131), a sua volta ispirata dalla Convenzione europea del paesaggio (Firenze, 2000; artt. 1 e 5). E non si può ignorare come l’Unesco, già a partire dal 1997, abbia avviato un processo di riconoscimento e salvaguardia del “patrimonio culturale immateriale” (Intangible Cultural Heritage) che ha trovato compimento nel 2003, con la ratifica dell’omonima Convenzione.

Ma non per questo possiamo perdere di vista come tali contenuti intangibili assumano un valore di testimonianza, in termini di paesaggio e patrimonio culturale, solo in quanto generatori di processi in grado di sedimentare permanenze, tracce sull’assetto topografico del “territorio” (concetto per sua natura astratto e, per certi versi, inerte). André Corboz tanti anni fa (1983) parlava di un palinsesto, incessantemente cancellato e riscritto.
Il luogo stesso, nel caso qui in esame, rappresenta qualcosa di non comune, proprio grazie alle sue prerogative di natura paesistica. È infatti opinione etimologica assai diffusa che lo stesso toponimo “inganapoltron” abbia a che fare con la straordinaria visibilità del borgo di San Giorgio, che si erge intorno all’antica pieve romanica su un poggio panoramico, tanto da sembrare «raggiungibile con pochi passi».

E l’intervento illustrato in queste pagine riesce a focalizzare quello che spesso sfugge, anche alle stesse commissioni locali per il paesaggio (composte perlopiù da architetti che non sempre hanno ben chiaro il confine labile tra architettura e paesaggio). Ovvero il ruolo, il significato ed il valore delle relazioni di “scala”.
Il progetto, sostanzialmente un’architettura d’interni, opera per mantenere ed esaltare il rapporto visuale con il luogo, restituendo una dimensione “sospesa” tra borgo e paesaggio: San Giorgio il borgo di pietra, la Valpolicella tra cave di marmo e vigneti, le colline moreniche con il lago di Garda sullo sfondo. La disposizione su due piani, con le zone di soggiorno e le camere sul perimetro permette continue relazioni visive con il territorio, con l’area vasta. Le finestre ed il tetto, gli elementi di soglia (in-between) diventano generatori del progetto, nella costruzione di una dimensione “contemplativa” che rende ogni stanza unica e, realmente, esclusiva (aggettivo anch’esso oggi maldestramente abusato): il davanzale si estende e diventa un mensolone, una quota d’imposta continua che disegna la nuova camera, il letto, le sedute, l’armadio e il “deposito” bagagli.

L’oscuramento delle finestre viene risolto con pannelli opachi interni, su cui sono dipinti in copia i paesaggi che vediamo dalla camera, la “finestra notturna”, opere di Tommaso Carozzi. Le stanze assurgono così a luogo dell’esperienza “estetica” (nel senso duchampiano) dove il territorio incontra la sua rappresentazione, inquadrata nei diversi tableaux e facendosi, così, paesaggio. Ma il gioco di riflessi in questa “camera degli specchi” si fa complesso ed ambiguo, allorché tele e cornici (dipinti e vedute) si dissociano, moltiplicando i livelli cognitivi e trascinandoci in una dimensione incerta, dove il confine tra realtà ed immagine si fa labile.
Anche il soffitto concorre al continuo “spaesamento” spaziale e sensoriale dell’ospite, o del visitatore. Grazie all’uso pittorico del colore, che assume connotazioni chiaroscurali nelle diverse tonalità del rosa-magenta, le dimensioni bidimensionale e tridimensionale sfumano l’una nell’altra. Le falde del tetto sono piani di un cristallo sfaccettato con i colori del tramonto, che si deformano nel punto in cui giungono a contatto con il parapetto della scala, realizzato attraverso lo sviluppo verticale a tutta altezza di pannelli in tessuto retroilluminati, come una stalattite.

Lo specchio del bagno e la boiserie del soggiorno sono piani che si inclinano rispetto alla parete, deformandone la natura. I primi reintroducono il paesaggio nell’immagine riflessa, i secondi evocano la forza del complesso monumentale della pieve romanica. Attraverso il design del tavolo, degli imbottiti, della boiserie e grazie ad altri dettagli che interagiscono con oggetti artistici selezionati dagli autori, l’allestimento del soggiorno assume la configurazione di uno spazio espositivo, trasportandoci nuovamente da una dimensione “domestica” a una dimensione “estetica”. Un wall drawning di Sebastiano Zanetti ne completa l’operazione (…).
È stato conservato il pavimento in legno di rovere del soggiorno e delle camere e quello in pietra della scala e del ballatoio. L’MDF è il materiale usato per l’arredo: naturale con vernice trasparente, leggermente mordenzato, verniciato di bianco e nobilitato con laminato nanotech super opaco, satinato o lucido. I bagni sono in resina.

L’ultima tappa in questo sofisticato dispositivo circolare di “riflessioni” ci riporta all’inizio, alla porta d’ingresso, dove eravamo stati accolti dall’insegna, opera in cotto dello scultore Nicola Biondani. I suoi “teatrini di interni” sono una rappresentazione dell’intérieur, velato tuttavia di una nota struggente e malinconica.
Non possiamo – in conclusione – eludere un aspetto metodologico che emerge con esiti convincenti tra le righe di questo lavoro e che consiste nella stretta collaborazione, nella relazione sostanziale o meglio ancora nell’incontro tra architetto ed artista. Evocando la nozione di “arti applicate” che connotava l’esperienza del Werkbund, poi confluita nel Bauhaus di Walter Gropius, l’aspirazione all’«opera d’arte totale» (Gesamtkunstwerk) porta l’architetto a fare un passo indietro, rinunciando al controllo assoluto, esclusivo dell’opera e del suo carattere. Per fare spazio agli strumenti e al linguaggio all’artista. Che viene spinto, a sua volta, a rinunciare ad una parte della propria autonomia espressiva per costruire un’opera site specific, ponendo il proprio “mestiere” al servizio non tanto dell’architetto, quanto dell’architettura e della sua naturale vocazione ad ospitare.

LOCALITÀ:
Committente
B&B La Grande Casa


Progetto architettonico
arch. Luigi Marastoni
arch. Loretta Sacconelli


Artisti
Nicola Biondani
Tommaso Carozzi
Lino Stefani
Sebastiano Zanetti

Fornitori
Mobilificio Zinelli
Mafezzoli Roberto pitture
Baldo Impianti snc
Moscatelli Claudio impianti elettrici ResResine di Antonella Brazzarola
Vetraria Effemme snc
Arredoluce




Cronologia
Progetto e realizzazione:
2015-2016


Dati dimensionali
Superficie utile: mq 183