Discrezione, proporzione, dettaglio

Sulle colline di Bardolino il recupero di un antico edificio colonico è l’occasione per svelare la natura e lo spirito di questa architettura

Testo: Andrea Masciantonio
Foto: Giampietro Rinaldi
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A Bardolino, in località Prati Palai, è stato recentemente concluso un cantiere di “ristrutturazione” di un antico edificio colonico, il Colombarone; costituito da differenti corpi edilizi che si addizionano, sino ai primi anni del 900, a un nucleo originario assegnabile alla fine del XVI secolo, esso è stato restituito, attraverso un intervento di grande attenzione alla natura del fabbricato e di preciso controllo dei dettagli, a una nuova dimensione funzionale. Ripensato come residenza turistica, l’esecuzione dei lavori ha innanzitutto il pregio di non aver tradito (o peggio ancora mortificato, come spesso avviene) il senso dell’edificio e il suo rapporto con il paesaggio circostante, rispetto al quale, nonostante la posizione dominante, si pone con schiva eleganza.

È assai raro, in interventi di questo tipo, non incappare in alcuni luoghi comuni della retorica della hôtellerie di lusso così diffusi in questi anni: uno fra tutti, tanto per portare un esempio, l’immancabile piscina a sfioro, diventata recentemente più espressione di pigrizia compositiva e mancanza di coraggio, che espressione di un preciso rapporto con l’acqua e con il contesto che la ospita. Ebbene, a Prati Palai si ritorna molto modestamente alle origini delle antiche ( o vecchie) vasche che commentavano i giardini delle dimore di campagna o, ancora più diffusamente, che servivano per la raccolta delle acque scolaticcie nelle grandi aziende agricole: un semplice rettangolo contornato da lastre di pietra bianca di Prun. E molte altre sono le scelte “coraggiose”, se poste in relazione con il “mercato” per le quali sono state messe in campo. In sintesi, qualcosa di questa architettura ci parla di una sua genesi complessa, di un contesto culturale un po’ diverso; qualcosa di trasversale esiste nello spirito dell’edificio, la cui storia progettuale, una volta svelata, suggerisce anche altre riflessioni…

Il segno lasciato dai grandi maestri dell’architettura ha sempre un aspetto complesso, cangiante e variabile in relazione agli ambiti nel quale viene ricercato o, talora, appare manifestamente: la traccia più evidente è quella costituita dalle architetture realizzate; la traccia più cangiante è quella lasciata nel pensiero degli allievi destinata inevitabilmente a vivere (o modificarsi) in congiunture culturali, economiche e spirituali a volte molto diverse da quelle originarie. La storia dell’architettura e della letteratura critica ad essa legata ricorre quindi a tutti gli strumenti disponibili (documentali o di analisi del manufatto) per ricostruire, per tracciare, la mappa genetica del manufatto oggetto di studio. Talora, invece, succede che le vicende costruttive di una architettura siano talmente recenti (e subito interessanti) da consentirci, lusso assai raro, un approccio meno filologico, più pudico nei confronti di una architettura di cui non si voglia “mettere a nudo” i segreti del suo fascino, ma piuttosto seguirne le traiettorie percettive, spaziali ed emotive.

L’architettura di cui stiamo parlando è un edificio posto su un declivio digradante verso il lago di Garda e da cui si gode una vista amplissima del grande specchio d’acqua luminoso. L’accesso, avviene da una strada privata che allontana, discretamente, l’edificio dalla vista pubblica ravvicinata; esso appare successivamente come un antico volume riconducibile, in pianta , ad uno schema ad L e rifinito con un sobrio intonaco naturale assai chiaro che lascia leggere, in una situazione di luce radente, l’apparecchiatura muraria sottostante. Strenuo sostenitore del fatto che l’architettura non vada mai descritta (nemmeno Vitruvio è riuscito a farlo in modo chiaro) ma vada disegnata e percorsa, cercherò qui di limitarmi esclusivamente al “reportage” delle impressioni avute durante la visita al Colombarone, prendendomi qualche concessione “descrittiva” rispetto al mio precedente proposito ma solo in funzione di una sistematicità generale di questa breve nota.

La prima impressione che ho avuto guardando l’edificio è stata quella di una forte discrezione compositiva (da non confondere con un rinunciatario e rassicurante atteggiamento conservativo); mi è parso qui piuttosto che finiture di gronda, serramenti esterni e scelte di materiali fossero, ad esaminarli con attenzione, il prodotto di una lunga riflessione. Ad esempio: l’atteggiamento di assumere come un valore, uno stimolo compositivo, la necessaria modifica dei serramenti di alcune finestre del piano primo per obbedire alla funzionalità e gradevolezza delle camere di riferimento; o le soluzioni per introdurre un sistema di smaltimento delle acque piovane perfettamente integrato nei valori dell’edificio, sempre con un atteggiamento di comprensione esatta dell’edificio e tale da poterti introdurre (come architetto) in quella intimità che ti permette anche il gesto personale, esclusivo.

Molto spesso, oramai ci siamo abituati, entriamo in spazi architettonici completamente fuori scala, nei quali ci si è dimenticati dell’uomo, delle sue proporzioni e conseguentemente delle sue abilità ad usare facilmente uno spazio e a sentirvisi a proprio agio. Negli edifici pubblici o di potere questo si è sempre fatto e forse, anche giustamente, si continuerà a fare: ma cosa dire della semplice “casa”? A Prati Palai tutte le camere con i relativi spazi comuni sembrano aver assunto come obiettivo un calibrato equilibrio volumetrico di tutti gli invasi le cui scelte cromatiche, fondamentali nella percezione psicologica di uno spazio, concorrono ad una idea dell’architettura fortemente legata a valori emotivi ed intellettuali più che immediatamente scenografici (dai quali, in ogni caso, se ben fatti, anche noi non dissentiamo).

Molti, al Colombarone, sono i dettagli di disegno degni di nota: dai serramenti (per i quali si è arrivati anche al deposito di un brevetto) sino alle boiseries di alcune camere e al sistema di travature binate per risolvere l’insufficienza di alcune sezioni lignee; ma mi piace qui segnalare, ad esempio, il dettaglio “misterioso” di puntoni lignei che al vertice di una copertura a falde sembrano, provocatoriamente, slegati ed allontanarsi l’uno dall’altro. Non occorre qui svelare il mistero o la citazione, quanto piuttosto l’atteggiamento: un dettaglio che qualifica non l’aspetto semplicemente formale o materico del nodo, ma ne studia la natura tettonica, costruttiva, giungendo sino allo scherzo (quello serio).

Damiano Zerman è l’autore dell’opera finale, Giuseppe Tommasi ne è stato l’iniziatore. Il lascito della visione dell’architettura di Carlo Scarpa agisce come elemento che transita, trasversalmente, su tutto l’edificio. E così, la mia semplice e piacevole passeggiata al Colombarone di Prati Palai si chiude con una riflessione quasi irrinunciabile, non tanto, come anticipavo, sulla paternità o tracciabilità compositiva della singola scelta progettuale, quanto sul senso di un “discepolato”, sulla traccia depositata da un maestro come Scarpa non nello “stile” dei suoi allievi, ma piuttosto nell’atteggiamento: discrezione, proporzione, dettaglio. Giuseppe Tommasi prima e Damiano Zerman dopo sembrano profondere nell’approccio a questo intervento una discrezione (anche nel senso etimologico del termine) assolutamente degna dell’illustre maestro: l’edificio svela lentamente, quasi solo a seguito di una necessaria concentrazione, tutti dettagli, peraltro fortemente assertivi, della facciata, dei suoi serramenti, della sua copertura nei punti di iterazione coi prospetti.

Gli ambienti interni, sempre molto calibrati, ci parlano di una percezione dello spazio (del vuoto) architettonico come argomento privilegiato di riflessione rintracciabile anche nel lavoro del maestro veneziano; e poi il singolo dettaglio dei serramenti, delle coperture che si pone come la naturale conclusione di un pensiero più ampio ma che si cimenta sempre con l’architettura come costruzione, come relazione tra le parti. Il lavoro svolto da Giuseppe Tommasi durante tutta la sua carriera professionale non ha bisogno di ulteriori riconoscimenti; ciò che invece è doveroso notare è come, a prescindere dai naturali (ed auspicabili) tradimenti stilistici che ogni allievo deve commettere verso i propri maestri, tutta la fase di sviluppo progettuale e di esecuzione dell’opera condotta da Zerman – e dai suoi rispettivi collaboratori-allievi) – ha saputo cogliere gli aspetti salienti di una “visione dell’architettura” come quella di Giuseppe Tommasi e indirettamente di Scarpa; la quale, per fortuna di noi architetti, lungi dall’essere quella somma e definitiva, è quella, tuttavia, di un grande maestro che lascia ancora tracce “culturali” nel lavoro quotidiano di alcuni colleghi. E poiché si parla di architettura, quella vera, non bisogna dimenticare la committenza che riveste un ruolo decisivo nella realizzazione di quest’opera: affascinata, per farla breve, dagli allievi diretti o indiretti di Scarpa?
Forse piuttosto affascinata da un architettura con un pensiero discreto, a misura, dettagliato.

 

LOCALITÀ:
Committente
Azienda agricola “Dello Stabile”


Progetto architettonico e direzione lavori
arch. Damiano Zerman -Studio Athesis


Progetto preliminare:
con arch. Giuseppe Tommasi


Collaboratori
arch. Alessandro Merigo
arch. Gianpietro Rinaldi


Consulenti
ing. Francesco Breoni (strutture)
Studio Nucci e Associati (studio geologico e geotecnico)
Agrinet di Gino Benincà (studio e consulenza agronomica)


Imprese esecutrici
FPS di Fraccaroli Paolo e Stefano (opere edili), Anselmi Giovanni Falegname (serramenti), Termosanitaria Pasinato (impianti idraulici), Bertoldi Tecnologie S.r.l. (impianti elettrici)

Cronologia
Progetto e Realizzazione:
2011-2014


Dati dimensionali
Superficie coperta: 310 mq
Volumetria: 2.485 mc