Era una casa molto carina…

Il recupero di un antico insediamento rurale tra le colline sopra Verona mostra il dialogo tra l’originale semplicità di materiali e luoghi e il comfort dell’abitare contemporaneo

Testo: Tomàs Bonazzo
Foto: Michele Mascalzoni
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Il sole abbacinante, le ruote rigonfie, la catena ben riposta, la concentrazione di potassio nei parametri: tutti gli ingredienti per una scampagnata su due ruote si misero sull’attenti. Pareva che nulla uscisse dai ranghi, salvo, in effetti, il capo-redattore. Lui non era molto per la quale. A prescindere dai partecipanti, comunque, un cittadino, veronese e proprietario di una bicicletta, non può o non deve non aver percorso almeno una volta in vita la via per Montecchio.
Si tratta di un noto principio tassonomico imprescindibile.

La partenza era comunque accomodante e sconfisse quel primo falso piano – in sincerità, davvero “falso” – sino a Piazza Righetti, in cui un sindaco del comune di Quinzano presiedette sino al 1927; poiché la prassi architettonica, purtroppo, coarta i suoi cultori, ora in cima ad una sella, in ripetute pause ristoratrici, sceglievamo di centellinare i nostri inspiri per aneddotiche lezioni locali: dallo strano caso dell’Homo Quintianensis, all’ombra dell’ultimo Castel con i suoi drammi kafkiani per via dei merli sia di partito guelfo che ghibellino, e inviso alla ben nota statua cagnesca che rievoca le faide in salsa shakespeariana tra quinzanesi e avesani. Il proseguo invece seguitava sulle orme di un’eminenza meccanica, il primo motore a benzina al mondo applicato ad un veicolo. Torino, Dearborn, Hill Valley? Agnelli, Ford, Emmett “Doc.” Brown? Troppo prevedibile, poiché la risposta è: a Quinzano, ad opera dell’ing. Enrico Bernardi.

Finalmente, poi, dopo sette controindicati e sudanti tornarti, che dissipavano il paesano con gli artifici pittorici dello sfumato, in una fenditura del pittoresco, tra il coltivato e il selvatico, un piccolo sentiero sterrato era il segnale di una fine, o del nuovo inizio. La prova che rivelava il movente di una siffatta gita era una rinascita dalle ceneri, un lusinghiero caso di fenice edile. Si trattava di un intervento riqualificante di una fondazione che, dapprincipio e precipuamente, era rurale. Voci di cherubini, allora, intonavano il classico “era una casa molto carina…” mentre prendevano coscienza. Alano di Lilla, già, ci spiegava l’epiteto più indicato: elegans architectus; lui lo aggiungeva all’Altissimo, noi ad un vate autoctono: Mario Bellavite, chief dello studio Arcade, la cui progettazione integrata intricava il sensorio per l’intrigante involucro che ora si esponeva alla nostra attenzione.

Senza “se” o “ma”, o anche per esclusione, si trattava di una casa padronale, abbandonata con le proprie attinenze, sul fianco di una dolina a ciotola. L’impronta del carsismo non era l’unica, poiché anche quella umana appariva come il portato di una secolare stratificazione edile. Le numerose pluralità si componevano allora in un consumato impianto ad “L”, più un cubo, un ex fienile-stalla, nell’angolo vuoto di un perimetro rettangolare segnato da un muro di assestamento parecchio incertum.

La corte nuda, centrale, permetteva libere visuali della casa padronale e della sua compatta facciata in cui tre prospetti disallineati e scalinati lungo la linea di gronda, che rammentavano un suo graduale erigersi; gli stessi, nel contempo, s’incatenavano ad un vestibolo con quattro pilastri monostili e primitivi sorreggenti tre archi con altrettanti serragli e archinvolti. L’abbecedario compositivo non logorava la retina con le fluorescenze o le ”squame” negli intonaci -proprie di un diffuso e moderno credo architettonico/riqualificante-, impalmando miticamente i suoi elementi non coevi con il complemento del curioso caso di un barbacane residenziale con pietre in vista nel suo lembo orientale.

Come una spada, poi, una vecchia barchessa tentava di trafiggere il margine della casa che, in risposta e a tutela, ripiegava, inventandosi un cantuccio a cielo aperto. Si precisa “vecchia” non solo perché di remota erezione, ma per l’ospitata funzione ammodernata: una stretta e allungata vasca d’acqua, un indubbio status symbol occidentale, concorrente, per protagonismo, di Alain Delon nel classico del 1968 (Le piscine). All’interno, sospeso nel vuoto, un parallelepipedo mascherava con doghe in larice un sudatario, mentre scopriva con vetrate minimali uno xisto anch’esso minimo. Sia per la xesturgia applicata ai sassi, siano le travi lignee in vista, si respirava un autentico e antico vivere termale.

Le pendenze del rilievo, fagocitando parte del piano terreno, galvanizzavano gli accessi secondari sul prospetto nord direttamente dal primo piano, con un triplice ingresso dal sopracciglio arcuato o piano, sempre raffinato seppur in un dimensione rustica. Agli ingressi, proseguivano tre ponticelli per nulla levatoi, in pietra, in superamento di uno scannafosso.
Il retro, volendo – e potendo – dimenticare le lezioni di Dickens sugli slum, si sbizzarriva in un delizioso quasi-giardino per rappresentazioni solenni e senza scenografie di Sogno di una notte di mezza estate.

Gli ambienti interni della casa rivelavano una sapiente e mai noiosa alternanza materica, tra le travi e i paradossi in legno di conifera o di castagno, tra lastre in pietra di Avesa e mattoni di terracotta in pasta molle posati in chiave; ma, le altalene dei materiali costruttivi e di decoro, non erano sufficienti senza una misurata progettazione illuminotecnica che soffondeva, direttamente o per albedo, tanto le cucine, quanto i corridoi. Indimenticabile la volta a botte che sovrastava l’arredo proprio della tinaia nel piano interrato, religiosamente mai intonacata.

Le ultime tappe – ma che, spazialmente, erano le prime che s’incontravano – erano un oratorio con tetto a capanna e altare interno, quasi a sembrare l’avancorpo della vecchia barchessa, e una convertita, sia in anima che in corpo, da stalla in seconda abitazione, un orgoglioso e non più servo edificio, consapevole dei propri diritti. Qui, un vano angolare e con doppia altezza, protervamente illuminato, obbligava in azioni circolanti attorno ad un diverso altare di una rinnovata religione: un cucina che, per performance culinarie, competeva senza cuoco per meritate stelle Michelin, mentre una sala con parquet di recupero e biliardo concludevano il piano terra. Al secondo livello, invece, un angolo lettura si sporgeva nel vuoto, mentre l’indimenticato bagno e una camera matrimoniale con caminetto, guarniti anch’essi di arredi di dolce recupero, mitigavano le laude in onore di una principesca dependance.

Il grand tour terminava allora così, col cuore rallegrato e l’imposizione di un nuovo tabù architetturale: di gite in bicicletta, il capo-redattore e il giornale, non tolleravano altra menzione, nemmeno per sbaglio. E, intanto, i cherubini ascendevano glossando: “ma era bella, bella davvero…”.

LOCALITÀ:
Committente
Privato


Progetto architettonico e direzione lavori
arch. Mario Bellavite
Arcade Progettazione Integrata


Collaboratori
arch. Francesca Boninsegna

Progetto strutturale
ing. Franco De Grandis


Impresa principale
Costruzioni M.E.C. srl

Cronologia
Incarico: 2011
Realizzazione: 2012-2015