Da tempo attendiamo il momento opportuno per parlare dell’Arsenale di Verona, straordinario compendio militare absburgico destinato a ricoprire nuove funzioni urbane. Ma quel momento, in cui illustrare finalmente un progetto che segni l’agognato avvio del suo recupero, in realtà non è arrivato, anzi non sembra nemmeno essere prossimo, a meno di improvvise novità. Di contro, il prossimo primo giugno 2015 ricorreranno giusto vent’anni dal passaggio dell’intero complesso dall’amministrazione militare a quella cittadina. Le cronache di quei giorni raccontavano con il giusto entusiasmo il passaggio di consegne, foriero di grandi aspettative per quello che si sarebbe potuto fare dei grandi spazi acquisiti al patrimonio della cittadinanza. E invece…
Nelle italiche sorti, il termine “Ventennio” ha assunto forzatamente un carattere sinistro: è divenuto sinonimo di vergogna, di una storia andata a finire male, di speranze mal riposte. Duole ravvisare l’appropriatezza di tali sfumature di significato in merito al Ventennio di inazione per l’Arsenale: certo non una bella pagina di storia per Verona.
Quale ruolo per l’architettura, in questa vicenda? Certo non avrebbe senso pensare al potere salvifico di un progetto, o meglio di un progettista-demiurgo, capace di sciogliere con un sol gesto – rigorosamente griffato – i tanti nodi in campo. Così come appare altrettanto parziale l’eccessiva semplificazione di un approccio bottom up, con pregi e limiti uguali e contrari di quello top down. In questi lunghi anni sono state condotte le migliori ricerche storiche e tesi di laurea a non finire, a un concorso azzoppato hanno fatto seguito proposte di uso di tutti i tipi, da quelli monofunzionali allo spezzatino spinto, dal tutto-pubblico al tutto-privato. Abbiamo letto infiniti annunci, articoli, proclami, appelli.
Abbiamo visto all’opera sia estrosi solisti che compagnie ben organizzate, ma purtroppo nessuna direzione d’orchestra, senza la quale ogni eccellenza musicale diviene cacofonia. Abbiamo visto e vediamo i tetti crollare, l’umidità risalire sui muri, i conci di tufo sfaldarsi, l’avanzamento inesorabile delle infestanti. Abbiamo bevuto alle feste della birra e mangiato alle sagre della polenta, visitando mostre di serpenti e di antichi strumenti di tortura. Solo per questo l’Arsenale è stato acquisito dalla città?
L’occasione dell’anniversario da non festeggiare – il Ventennio della vergogna – può e deve essere il punto di svolta della vicenda. Prima di mettere in campo nuove soluzioni progettuali, per le quali non mancano ottime risorse sia locali che esterne (anche tra le molte già coinvolte), occorre che la città sappia esprimere una volontà chiara e determinata, attraverso i suoi organi di rappresentanza a tutti i livelli (civili, amministrativi, associativi, culturali, professionali).
Occorre chiarire il ruolo della cittadella-Arsenale, assecondando alcune richieste ma necessariamente non tutte, ripensando al significato urbano di questo complesso e alle sue potenzialità straordinarie per dimensione, posizione e rango nel sistema cittadino, non riducendolo a una banale attrezzatura di quartiere. Occorre che le arti del progetto si facciano sensibili, affinando le mire e le tecniche, di modo che, pur nella attuale ristrettezza di mezzi, la speranza e la volontà di riscatto possano dispiegarsi (come avvenne dopo quell’altro tragico Ventennio), mettendo benzina sul fuoco dei progetti e sciogliendo le briglie alle procedure.
Occorre, prima di mettere mano alla ricostruzione fisica – purtroppo necessaria – di molte sue parti, ricostruire il senso civile e morale di una operazione simbolicamente cruciale per la città.