Fare cappotto

Un provvedimento legislativo temporaneo offre agli architetti nuove occasioni di lavoro assieme a una riflessione sul loro ruolo

Non è la prima volta che alcuni provvedimenti legislativi temporanei, dunque a scadenza – quanto meno inizialmente, sempre nelle more di un’eventuale e quasi immancabile proroga – determinano ondate schizofreniche di lavoro per i professionisti del settore edilizio, architetti in testa. Certo, rispetto alla siccità le onde sono sempre ben accette: qualche schizzo tonificante rischia di arrivare un po’ a tutti, anche se gli effetti di quel che succede sotto la superficie liquida affiorano solo in un secondo tempo.

Ed è proprio sulla superficie, su quegli involucri architettonici rei confessi della dispersione di calore, e dunque di energie preziose per il nostro malconcio pianeta, che si concentrano molti degli sforzi legati alla potenziale riqualificazione ed efficentamento degli edifici, grazie ai salvifici e superlativi bonus fiscali del momento, dai quali si è originato lo tsunami che sta attraversando gli studi di progettazione.

Se il precedente provvedimento una tantum, quello dei piani casa – poi diventato immancabilmente ciclico, di scadenza in scadenza – , ha prodotto occasioni progettuali che, quando ben interpretate, hanno dato luogo ad esempi di architettura interessanti e significative – assieme, va detto, a molte storture e aberrazioni urbanistiche – cosa possiamo aspettarci da questa irrefrenabile sagra del cappotto?

Pare di assistere a una sfilata di moda, collezione autunno-inverno: sulla passerella dei cantieri ecco gli ultimi modelli in polistirene, fascianti sulle forme, riccamente accessoriati di prestanti tassellature, con fusciacche in rete di nylon e rasature ad elevata performance, come le migliori creme anti-age.

A ogni epoca il suo materiale di riferimento: scordiamoci dunque il vituperato cemento armato a vista, sincera espressione strutturale ma, ahinoi, crudamente permeabile ai rigori delle opposte stagioni. A noi contemporanei, quale materiale simbolo dei tempi che viviamo, è toccato in sorte una sorta di derma plasticoso bolso e ipertrofico, futuro ricettacolo di muffe vecchie e nuove, destinato a stendere un velo pietoso – si auspica – sulle non più tollerabili vergogne termotecniche.

Siamo decisamente in clima (casa-clima?) di proibizionismo: guai a mostrare un po’ di nuda pelle architettonica, qualche impettito sbalzo, bei fianchi vigorosi o terga sode. Chi si ricorda più quell’ingenuo principio della verità strutturale dei materiali? È d’obbligo la finzione: la censura della trasmittanza è lì in agguato, per non parlare della peggiore delle scomuniche: la perdita del bonus!

In molti casi si può certo dire che “sotto il vestito, niente”: e dunque ben venga l’occasione di una nuova coltre, quale occasione di ripensare non solo le prestazioni termiche ma anche l’aspetto di un edificio. È una sfida progettuale aperta.

Di contro, non sono pochi i casi in cui le membrature architettoniche non tollerano mascheramenti, pena la perdita dei connotati più significativi di un edificio. Se per l’edilizia storica ciò appare evidente, occorre un maggiore sforzo di consapevolezza per tutto il patrimonio dell’architettura moderna, per la quale corrono tempi duri: c’è il rischio di una sorta di rimozione collettiva, un’abrasione della storia in nome di un principio sacrosanto in termini generali, ma assai pernicioso sui casi specifici. Non è questione di vincoli, e anche la sensibilità dei progettisti – dando per assodato, fiduciosi, che sia sempre presente – è tenuta sotto doppio scacco da parte di termotecnici e fiscalisti, ai quali la norma concede il primato assoluto.

Il ruolo riservato agli architetti in tutto questo processo è decisamente marginale. Ben che vada, si tratta di mettere in piedi la pratica edilizia, con tutto quel corollario isterico che il dettato di legge comporta, nel mettere mano a stati di fatto spesso ardui da ricostruire nel confronto-scontro con gli archivi degli Uffici tecnici, quanto meno di difficile accesso (ad esser buoni).

A questo punto, dal momento che non pare esserci via di uscita dalla logica degli incentivi temporanei – al di là del bonus e del malus –, perché non pensare a una premialità per la qualità architettonica? Una sorta di bonus bellezza? Certo non sarà facile mettere d’accordo tutti, e rispetto alla oggettività (speriamo che sia tale) dei numerini degli amici impiantisti e affini, una giuria ben qualificata potrebbe attribuire una “classe estetica” sulla base della quale un progetto possa accedere a incentivi, benefits e simili.

È un volo pindarico, ma di fronte a uno strumento del genere anche committenti e imprenditori saranno mossi a ricercare una qualità architettonica di cui per primi beneficeranno, assieme alla comunità gratificata dalla realizzazione di un buon progetto. Solo così gli architetti potranno tornare a fare gli architetti, smettendo i panni del momento dei superbonisti condizionati dal numero dei centimetri del rivestimento isolante (deciso da altri).

Dopo il risparmio energetico, è giusto che si risparmino anche le migliori energie di fior di professionisti educati a pensare alle forme degli spazi del vivere. Gratificati, si potranno persino concedere l’acquisto di un nuovo cappotto, di un soprabito: o almeno di un giubbino.