Per molti anni il dibattito sulla città si è incentrato, con molte ragioni pertinenti, sul tema delle periferie, sulla loro marginalità e dunque sugli sforzi per un loro necessario recupero, al fine di ricreare in maniera diffusa una dimensione urbana quanto meno paragonabile a quella dei “centri”. Dando così per assodato che i valori della vita condivisa – lo scambio, la socialità, la cultura, il commercio, dunque tutto quanto fa vita urbana moderna e occidentale ed europea – fossero incarnati (o per meglio dire ammattonati, impietriti) nel concetto di centro: che fosse antico, storico o comunque civico, prima di diventare più banalmente “commerciale” (e senza pagamento di alcuna royalty).
Va detto che in tema di periferie il lavoro non può certo dirsi fatto e finito, e anzi fenomeni di periferizzazione nascono e si ricreano di continuo, determinando ambiti dei contesti urbani monofunzionali, marginali, poveri di servizi e dunque bisognosi di attenzioni e di cure: di progettualità. Ma siamo sicuri che fenomeni del genere, di tutt’altra natura eppure analogamente preoccupanti, non stiano interessando anche i nostri beneamati centri?
Partiamo così in una esplorazione centripeta, dai bordi della provincia verso il capoluogo. Borghi e piccoli centri di notevole interesse sono diffusi in tutto il territorio veronese, attraverso i paesaggi collinari, quelli fortificati o anche quelli agricoli della pianura, ma sicuramente il laboratorio che meglio si presta per analizzare in vitro la chimica dei fenomeni urbani è quello dell’area gardesana, dove le transizioni di stato sono più accelerate. Gioiellini coi piedi bagnati nell’acqua dolce, beneficiati dalla natura e dal paesaggio, i paesotti lacustri godono di un benessere diffuso alimentato dalle economie fiorenti delle agricolture di pregio e dei servizi, ma soprattutto da tre fenomeni: il turismo, il turismo e infine – rullo di tamburi – il turismo. In piccolo, questo laboratorio sembra riprodurre in una dimensione locale quei fenomeni che a scala globale stanno attraversando il nostro paese: se le produzioni primarie languono, le nostre bellezze appaiono inesaurite e quindi, come si diceva un tempo, “giacimenti” da sfruttare, energie utili a mettere in moto la macchina dell’economia. Come un piccolo e fiorente Texas, il nostro Garda appare così disseminato di trivelle petrolifere, di pozzi che ne suggono la sostanza – l’oro azzurro del bel paesaggio – apparentemente senza fondo. Mancano solo i cappelloni a larghe falde dei texani daa soap opera, per il resto dai campeggi e dagli alberghi, dai villaggi e dalle seconde case le mandrie degli “ospiti” – ospiti paganti e quindi assai benvenuti – transumano quotidianamente nelle strette vie dei borghi, dei quali poco resta da godere oltre alla barriera dei plateatici, delle mercanzie in bella mostra e dei tavolini dei ritrovi mangerecci. L’esperienza del centro, dei centri, a questo si riduce: esserci, consumare, ripartire. Mordi-e-fuggi è la regola della fruizione dei luoghi urbani: addio alle belle storie d’amore, accontentiamoci di toccatine fugaci e di sveltine. Il consumo è quello delle merci ma soprattutto quello degli stessi luoghi: siamo nel pieno di quell’effetto Disneyland (meglio declinato localmente in effetto Gardaland) che accomuna i centri storici a dei parchi tematici, e che ha il suo massimo esempio, naturalmente, in Venezia.
Ma dai meandri del Canal Grande alle anse dell’Adige il passo è breve. La massificazione monofunzionale turistica del centro scaligero avanza a gran velocità, con fenomeni meno spinti che in laguna eppure con i medesimi sintomi. A queste modalità di fruizione dei luoghi turistici e monumentali si accompagna una dinamica insediativa ancora più preoccupante. Anche le attività direzionali, un tempo guardate con il massimo sospetto perché colpevoli di erodere la naturale vocazione abitativa dei luoghi, stanno via via lasciando i centri: traffico, parcheggi e nuovi modelli lavorativi lo impongono. Ne siamo stati complici anche noi, con l’abbandono della centralissima via Oberdan da parte della sede dell’Ordine. A scala più vasta, il trasferimento extra moenia degli uffici direzionali di quella che fu la Cassa di Risparmio veronese ha lasciato un vastissimo vuoto nella zona settentrionale della città antica, e molti interrogativi sul suo destino: perché se è è vero che la destinazione d’uso terziaria degli immobili ne determina un uso esclusivamente diurno, non avere più nemmeno quello può portare alla necrosi di intere parti di città. Un autorevole personaggio come l’ex rettore dell’ateneo veronese, rilasciando qualche mese fa un’intervista nelle sue vesti di presidente della fondazione bancaria cittadina, ha fatto sobbalzare i lettori affermando che la riflessione da compiere sul destino di quella grossa porzione del centro antico sarà decisiva “per il recupero o la fine del centro storico della città”.
Se non ne vogliamo, appunto, decretare la fine, dobbiamo tornare a parlare di recupero in vece di dismissione e abbandono: termini che siamo abituati ad usare per i contesti degradati e periferici, e che ritornano in centro da dove mancavano da un po’, da quando “il problema dei centri storici”, cavallo di battaglia di un’intera generazione di architetti e urbanisti dagli anni cinquanta in poi, sembrava aver trovato di fatto una pacificazione, una risposta apparentemente definitiva. I vuoti non sono più quelli delle devastazioni belliche, e i tessuti da ricostruire sono soprattutto quelli sociali, insediativi e soprattutto abitativi. Ritornano così di attualità parole d’ordine e categorie interpretative che paiono uscire da un vecchio stipo, un canterano della strumentazione professionale: ma cosa ce ne facciamo degli abachi tipologici, delle funzioni prevalenti, dei materiali e delle forme del luogo, se all’integrità fisica dei manufatti non riescono più a corrispondere funzioni di vita urbana stratificate? Anche le politiche di controllo del traffico – pedonalizzazione e chiusura di ampi distretti – pur lodevoli per i benefici sulla vivibilità dell’aria, rischiano di essere pensate in funzione di un idealistico passeggiatore urbano, romanticamente perso nel contemplare la bellezza dei luoghi, dimenticando completamente le esigenze di vivibilità delle popolazioni residenti (abitative e lavorative) e dunque concorrendo alla loro espulsione, accentuando di fatto la specializzazione monofunzionale in senso commerciale e turistica.
Norme e discipline urbanistiche sui centri, le classiche zone A, ne regolano fondamentalmente gli aspetti edilizi: tante belle categorie di più o meno presunta aderenza a un canone di autenticità, modello di riferimento cui informarsi, e di elementi spurii da espellere. Norme che ancora cincischiano di “superfetazioni”, non accorgendosi che la fisiologia degli organismi in questione ha subito mutazioni genetiche profonde, e i feti in questione sono cianotici. Oppure si perdono a dettar legge sui bei colorini, le cornicette di pietra, le cernierine degli infissi e altri ninnoli e carabattole da robivecchi, mentre nel frattempo il nuovo che avanza e/o indietreggia stravolge completamente la natura di quelle membra edilizie che si vogliono apparentemente salvaguardare. Forse solo i neo romantici potranno gioire alla prospettiva di un ruinismo rétro, perfetto scenario per i tour operator mondiali indaffarati a vendere a fette il Bel Paese, per i concertoni di tenorini e teneroni, in cui spiccano per involontario avanguardismo da “Indietro tutta” quei graziosi tendoni e dehors in fru-fru style dei quali la città storica è già stracolma.
Occorrerà allora mettersi a pensare con serietà e disincanto al ruolo che i centro possono continuare ad avere, o meglio dovranno avere in futuro all’interno delle nostre città. In tempi eroici, nell’estate del 1962, il gruppo di architetti raccolto attorno a questa rivista lanciò l’iniziativa di un “Convegno sullo sviluppo e la difesa di Verona”. Sviluppo e difesa paiono termini antitetici, presi a prestito dall’economia e dall’arte militare: eppure oggi difendere la città dall’assalto dei texani (del turismo) e favorirne uno sviluppo equilibrato pare ancora tema su cui discutere.
Alcuni anni più tardi, nel 1977, a Verona si tenne un altro convegno nazionale intitolato alla “Attualità del problema dei Centri Storici”. Oggi siamo di fronte a una nuova attualità, sulla quale condurre una riflessione costruttiva senza pregiudizi: una attualità del tutto diversa dalla precedente, problematica, ancora incerta nei suoi sviluppi e per questo potenzialmente ricca e stimolante. Abbiamo dei laboratori fenomenali su cui esercitare queste riflessioni.
La palla torna al centro.