Ultimo stadio

Il ruolo di un’importante infrastruttura ludico-sportiva nel rapporto con il quartiere e la città a partire dall’ultima proposta per il suo rifacimento ex novo

Come per un semplice cambio armadi di stagione, ecco nuovamente affacciarsi sui destini della città l’ennesima proposta di un “nuovo stadio”, l’ultimo di una serie oramai nutrita, adeguato alle tendenze e agli usi d’oggi in sostituzione di quello intitolato a un certo Bentegodi (Marcantonio: chi era costui?), simbolo di glorie sportive per gli appassionati e di cronacaccie para-sportive per l’Italia intera. Lo stadio, anzi lo Stadio con tanto di nobilitante maiuscola, non è solo un impianto per il giuoco del pallone, ma per sineddoche un quartiere di Verona: una parte di città densa, vitale, con tutte le problematiche di un tessuto urbano moderno cresciuto tumultuosamente dopo la costruzione nel 1963 della grande struttura sportiva, la cui valenza è di natura sovracomunale e territoriale.


Che per questa parte di città, come per altre, si debbano pensare politiche e azioni di riqualificazione per quanto riguarda gli spazi pubblici, il verde, i servizi, la mobilità e la qualità della vita dei cittadini, pare necessario e auspicabile. Risulta quanto meno dubbio che la semplice sostituzione dell’oggetto architettonico “stadio” con uno nuovo e fiammeggiante – qualora lo fosse – possa rappresentare un intervento pensato appunto alla scala dell’intero quartiere, in assenza ad oggi di qualsivoglia analisi dei bisogni, condivisione, strategie di ascolto, azioni e programmi prima ancora che progetti.
Eppure è proprio questa la partita che sta per avere inizio, circoscritta dal bando per la ricerca di investitori interessati all’operazione immobiliare – che di questo si tratta – nei limiti del rettangolo di suolo contenente l’attuale stadio. Siamo ancora nelle fasi antecedenti il fischio d’inizio, ma nel riscaldamento l’arbitro – l’amministrazione comunale – ha comunque messo nero su bianco i contenuti accessori – si fa per dire – della nuova struttura: campo di calcio a parte, in fondo null’altro che un cavallo di Troia, ci sarebbero infatti “un museo (1899 mq), una struttura alberghiera (circa 11 mila mq), spazi per uffici e servizi (8775 mq), pubblici esercizi (1679 mq), alcuni negozi (2484 mq), un teatro (562 mq) e spazi destinati al congressuale”. Olé. Sono questi i bisogni del quartiere, o non è altro che l’atterraggio di una nuova astronave aliena, un po’ più accessoriata e con i gadget planetari del momento?


Certo, gli stadi moderni devono essere multi-funzionali proprio per superare l’eccessivo uso specialistico a frammentazione temporale del loro utilizzo, e per dare un contenuto ai grandi volumi di sostegno delle gradinate per gli spettatori: gli esempi a tale riguardo non mancano, e nemmeno le eccellenti architetture capaci di esprimere tali assunti in maniera brillante. Peccato che, a tutt’oggi, quello che è stato presentato a Verona come studio di fattibilità da parte dei soggetti proponenti appare sotto questo punto di vista caricaturale: una sorta di neo-Arena monumentale e retorica, tutta giocata sull’ammiccamento con il monumento simbolo della città, facilmente spendibile anche per l’assonanza tra circenses e il fenomeno rituale del calcio. Una bozza di progetto del resto apparentemente anonima, perché evidentemente non si è ritenuto spendibile il ruolo dell’architettura e di un progettista quale carta da giocare nella partita urbana.
Sembra che la logica sottesa a un tale approccio progettuale sia quella del parco tematico – ineludibile destino della città turistica – dove si cannibalizzano senza alcun ritegno pezzi di storia utilizzati per il loro valore iconico. Un’Arena di serie B, imperitura condanna a un destino declinante per le squadre calcistiche cittadine (niente schiamazzi, signori tifosi?).
L’occasione di ripensare al rapporto tra l’attrezzatura sportiva-stadio e il tessuto del quartiere andrebbe valorizzata da studi seri, promossi e condotti dalla comunità e non dal privato che giustamente mira al tornaconto imprenditoriale: che è legittimo e necessario come volano di investimento, salvo appunto la necessità di un quadro di riferimento pubblico. La palla, la deve mettere l’arbitro. Solo così si potranno attirare le attenzioni di più giocatori, e il livello dello spettacolo di giuoco inevitabilmente salirà: perché la storia recente ha dimostrato come, nel caso di iniziative nate su proposta di un unico soggetto senza l’appetibilità nemmeno per un avversario, la sconfitta con tanto di rigori è inevitabile (Traforo, Arsenale).
Uno stadio come espressione della magnificenza civile e morale di una comunità, dal carattere funzionale e rappresentativo: questo è l’insegnamento che si deve trarre dal monumento romano, non certo la trascrizione banale e sgangherata della sua geometria. •