Alla fine della Fiera

Sulle valenze architettoniche e urbane del nuovo insediamento per la grande distribuzione sorto lungo l’asse di penetrazione alla città da sud

Ricordi traditi

Era il 2004 o 2005, anni eroici in cui tutto pareva possibile, quando fu inaugurato in gran pompa l’Urban Center di Verona. Un contenitore, che di per sé poteva essere tutto e niente, che aveva però un principio alto: condividere pubblicamente i grandi progetti che Amministrazione e privati immaginavano di realizzare nel breve, nel medio e nel lungo termine, sulla città. Lo spazio, che si trovava in uno stanzone all’Ex Macello, infatti, fu subito chiuso.
All’inaugurazione rimasi attratto da un modello puntiglioso in legno, con tanto di erbetta in plastica verde, che rappresentava una proposta per la grande area compresa tra le vie Scuderlando, del Lavoro, dell’Agricoltura e dell’Industria. L’opera del professor Porrino fu approvata come “Piano Particolareggiato di Iniziativa Pubblica dei Comparti A1 ex Magazzini Generali ed A2 ex Mercato Ortofrutticolo” con Delibera Consiglio Comunale n. 13 del 4 maggio 2005, dopo di che se ne persero le tracce. Progetto superato da interessi altri e dalla deprimente attività di un’intera generazione di attori, a vario titolo, sul palco dell’operetta cittadina.
Belle mosse quel piano: i blocchi dell’edificato, rarefatti in un esteso verde pubblico, erano posizionati perpendicolarmente a Viale del Lavoro (non a caso parzialmente interrato), a definire un’intuizione, per nulla scontata, di connessione visiva, urbana e ambientale tra due aree storicamente separate, Borgo Roma e Golosine, e utilizzando il comparto della Fiera stessa come cerniera di appoggio; sì, perché al tempo era ancora forte la saggia idea di una Fiera traslocata più a sud, oltre il casello della A4.
Quella del Porrino era una città moderna, stratificata, di hilberseimeriana memoria, demodé forse, in ritardo ma sempre buona, storicamente assente nel tessuto veronese se non per qualche raro spot. Almeno ci si è provato, e nella perdita di questa occasione abbiamo perso tutti, cittadini, politici, e soprattutto le categorie dei professionisti, sempre assenti quando conta davvero.

Poi venne la crisi, e quando di crisi si parla todo vale, anche il cannibalismo pare. La città sembra essersi ritorta in sé stessa in una certa forma di auto-cannibalismo, assecondando una pianificazione al massimo ribasso, supina a transitori sponsor, alla ricerca di rapidi utili e di opere di compensazione/perequazione che per una distorsione della realtà divengono utili, solo e forse, a sostenere le nuove opere stesse: l’equilibrio perfetto nell’equazione dell’interesse privato (s)venduto come pubblico.
Nel frattempo il conto si presenta sempre più salato, perché pare che il disegno politico delle recenti amministrazioni sia quello di organizzare spazi non per l’Homo Faber o per l’Homo Intelligentis quanto, e solo, per l’Homo Consumens, per dirla come Bauman. O meglio ancora: per l’uomo della crisi, quello che vorrebbe consumare ma che si realizza anche solo passando davanti ad una vetrina e immaginando di poter consumare come vorrebbe.
Qui il discorso si complica, impostandosi sul problema dell’iper-consumo e i relativi iper-luoghi da esso generati, e ci vorrebbe ben più di una mano di pagine per approfondire una questione comunque già in letteratura. Fatto sta che se fino al primo lustro dei Duemila, il fregio di Verona si posava saldo su due colonne – Terziario/Produttivo qualificati e Turismo/Cultura altrettanto qualificati e qualificanti – dopo dieci anni invece ci ritroviamo una città in cui il massimo dell’impegno culturale è stato il concorso “impossibile” per coprire l’Arena, finanziato dal privato a scopo pubblicistico/propagandistico il cui unico indirizzo è stato quello di ovviare al dramma del “se piòve se perde schei”.
Questa è la città che cambia, e non sono i suoi abitanti a cambiarla come un tempo, ma è essa stessa a fornire nuovi modelli di vita e di attività attraverso il consumismo globalizzato e l’illusione del risparmio. Del resto la città vera nelle sue due declinazioni, quella dentro le mura ezzeliniane e quella degli avviliti borghi, si illude di poter sopravvivere meglio de-enucleando i propri principi fondamentali. Quindi la prima si droga con le anfetamine dei mercatini natalizi condannandosi invece allo svuotamento di attività e idee vere, la seconda si abbandona a sé stessa perché tanto ormai quel che serve è tra le mura del più vicino centro commerciale. Tutti sottoprodotti di una suggestione collettiva.

Fenomeni periferici

Così accade che Borgo Roma, quello del barbiere, del panettiere, della scuola dietro casa, delle vecchine sulle panchine, delle rivalità tra lati opposti di via Merano, in un anno si è sobbarcato l’onere di accogliere tre insediamenti per la grande distribuzione; tre in un anno.
Come sempre accade quando qualcosa avviene nella città, prima partono le ruspe, poi ci si chiede se fosse il caso, ma ovviamente è troppo tardi. Ecco che dove doveva sorgere l’asse elettivo di penetrazione da sud, quel boulevard infrastrutturale tanto elegante quanto efficiente del Porrino e del Gabrielli, invece appare un nuovo bastione contemporaneo con le sue facciate in mattoni faccia a vista, che se da un lato ai veronesi più smaliziati può ricordare con tenerezza un’opera militare sanmicheliana, dall’altro desta qualche perplessità ontologica.
Bernardo Caprotti, il divino creatore di Esselunga, non mancò mai di chiarire il legame profondo tra l’edificio supermercato, la sua architettura e il messaggio di qualità intrinseca nei contenuti. Da Gio Ponti ai Gardella (padre e figlio) passando per Caccia Dominioni, molti expertise del moderno italiano sono stati infatti suoi autori.

Caprotti è mancato nel 2016 e forse questo è stato il problema per Verona. C’è da chiedersi fino a che punto l’idea dell’imprenditore eroico del Viale Regina Margherita a Milano sia stata tradita in Viale del Lavoro a Verona. Vero è che la Milano del ’57, quella dell’epica parabola di Rinascente e del design italiano, non è la Verona del 2016, ma qualche interrogativo, forse, poteva essere sollevato.
Stiamo parlando di un edificio che per massa equivale a metà dell’Arena, ma la scala non è la questione, casomai lo è la declinazione del fenomeno rispetto alle relazioni contestuali. Corsico non è Viale del Lavoro e Castellanza non è Borgo Roma, ma questo pare non essere stato un problema per il progetto. Anzi, in ossequio al brand gardellesco, buono forse per le periferie della Città da Bere, l’area è stata trattata come un Nulla di Ende nella estrema lottizzazione di un –ate lombardo qualsiasi.
Ne prendiamo atto, consci del resto di non aver fornito suggestioni o input di particolare qualità, e per questo qualcuno forse ha già pagato. Ma teniamolo ben presente: impiantato il bastione contemporaneo, sarà ora esso a determinare ogni dinamica futura sull’area, senza alcuna possibile alternativa. I giochi sono fatti, lì dove avrebbe potuto giocarsi la partita straordinaria di una Verona prossima, il prefabbricato inguainato dal mattone, con tanto di orgogliosa declinazione localistica del logo di Max Huber, produrrà immagine e contenuto solo di sé stesso.
Avrebbe potuto essere interessante riesumare tentativi importanti di ormai quarant’anni fa, ad esempio dei SITE (Sculpture in the Environment, già il nome è programma preciso) di James Wines con i progetti per gli stores della catena BEST negli USA. Visto che importiamo questa cultura potremmo provare a importarla bene.
In quella serie di progetti, nipoti di una corrente post-radical traslata oltre oceano, ogni manufatto, dal Wisconsin al Texas, determina attraverso il proprio codice linguistico una relazione profonda ed univoca con il sito, traslando l’immagine del brand non attraverso la figurazione costante di stilemi, ma attraverso un atteggiamento grammaticale improntato sulla singolarità dell’evento. Condizione questa in grado di convergere su tali oggetti paradigmatici tutte le tensioni e di sfruttarli promuovendo identità e nuove possibilità dialettiche. Fenomeni che fanno la storia dei luoghi, non che la annichiliscono.

La resistenza a questa visione delle cose, propria di una certa scuola italiana non è sempre stata in grado di relazionarsi con il suo tempo. All’interno e sul bordo di questa condizione solo alcuni sono stati capaci di sintonizzarsi sulla giusta frequenza. Tra tutti l’Aldo Rossi delle Torri di Parma, ad esempio, in grado di sovrastare il lessico usuale con un’opera efficace, in cui la massa funzionale viene contrastata con l’innesto di oggetti araldici, le torri appunto, che nel tempo sono divenuti veri landmark a connotazione identitaria non solo del progetto ma dell’area stessa.
Quelle pareti dell’Esselunga veronese, nonostante i tentativi di lesene e marcapiani, sembrano lontane dall’acquisire questo atteggiamento, sia architettonico che urbano, dimostrandosi alla fine, e un po’ ferocemente, come l’ennesima imposizione demiurgica dell’archi-business sul territorio della città.
Non resta che l’attesa che a qualcuno venga in mente di re-impiantare alberi dove già c’erano, e che questi come edera wrightiana, vadano a mitigare non tanto l’edificio ma almeno parcheggio e tettoie per carrelli su quel Viale del Lavoro che, già molestato negli anni, di questo proprio non aveva bisogno.

Considerazioni a margine

Borgo Roma misura all’incirca 1.2 km per 1.9 km circa, quindi 2.28 kmq. Adigeo dista da Bricoman 880 m e da Esselunga 820 m; un centro commerciale/supermercato/megastore ogni 0,76 km quadrati, uno ogni 600 m in media. Questo senza enumerare i già esistenti, il centro commerciale Galassia/Verona Uno appena oltre il limite, il previsto centro commerciale in Basso Acquar a 1.5 km da Esselunga, l’altrettanto previsto Iper Tosano a Forte Tomba a 1.2 km da Adigeo e l’erigendo Eataly a 350 m da Esselunga. Serve altro?
Avviso ai naviganti, capitani di ieri e soprattutto di oggi: non sarà certo qualche rotatoria o qualche albero impiantato a caso a salvarci da tutto ciò; la maschera delle opere compensative ormai è calata. Serve innanzitutto e quanto prima un piano che partendo da Verona Sud sia in grado di ricomporre solidamente lo sviluppo di tutta la sua cintura periferica che, ricordiamolo, è città quanto se non ormai più di quella storica.
Ma ora, alla fine della Fiera, appunto, una domanda, rivolta a noi come categoria intellettuale e a tutti quelli a cui può ancora interessare qualcosa: mentre ciò accadeva, tra uffici pubblici, Ordini Professionali, stanze dei bottoni, riunioni e cene, noi dove eravamo? Ma soprattutto dove saremo?