È indubbio che un impianto energetico incida in maniera definitiva sul paesaggio, una presenza ‘eterna’ in cui il gesto antropico risulta decisivo per l’esito percettivo di quel paesaggio. Forse è per questo che per un lungo periodo di tempo le architetture della luce, le centrali elettriche, sono state disegnate come castelli medievali o palazzi rinascimentali, per cercare una modalità in grado di costringere le comunità ad accettare il grande intervento industriale, una sorta di negoziazione con il territorio. Appartengono a questo periodo le centrali progettate da Portaluppi in tutto l’arco alpino o quelle di Muzio, fino agli anni ‘40.
Eppure dagli anni ‘60 del Novecento cambia la percezione del ruolo che gli impianti di produzione dell’energia hanno nello sviluppo di quell’Italia in piena trasformazione e rinascita, diventando quasi ingredienti celebrativi del risveglio di un’economia a lungo mortificata. Per merito quindi di una committenza illuminata, la cui capofila fu sicuramente la Montecatini, ma che comprendeva anche la Edison e alcune lungimiranti Aziende Municipalizzate, le architetture dell’energia assumono i caratteri di raffinati interventi architettonici con un ruolo paesaggistico autorevole all’interno del proprio territorio, come quelle di Ponti-Fornaroli-Rosselli in Val d’Avio o quelle di Muzio a Sondrio.
Una di queste, a cavallo tra le province di Brescia e Verona, le cui Aziende dei Servizi Municipalizzati ne furono promotrici, è anche la centrale termoelettrica di Ponti sul Mincio, a lambire le rive del fiume, realizzata nel 1965-66 con l’intervento progettuale dell’architetto Ezio Sgrelli (1924-2009) [1].
Sgrelli, milanese, fu esemplare rappresentante di quella generazione di giovani professionisti che, se da un lato non rinnegavano una vocazione internazionalista, dall’altro erano strettamente legati alla propria identità regionale fatta di sapere tecnico, di sperimentalismo costruttivo e di istanze di profondo radicamento del progetto all’intorno, al luogo, al sito. Laureato al Politecnico nel 1950, entra da subito in contatto con lo studio di Franco Albini di cui diventa anche assistente alla docenza. Da Albini Sgrelli mutua, oltre al metodo, fatto di costante controllo della piccola e della grande scala, anche alcune “figure” e materiali d’elezione che rielabora, oltre che a Ponti sul Mincio, per i precedenti progetti delle centrali di Tavazzano (1957) e di Cassano d’Adda (1960). Il ruolo della committenza nell’opera di Sgrelli risulta di fondamentale importanza, a partire dalla Montecatini di cui egli fu direttore dell’Ufficio Progetti del Servizio edile. Il contatto con la Montecatini gli procura, oltre ad una straordinaria quantità di incarichi, anche la possibilità di entrare in contatto con altre società e imprese che furono a loro volta future committenti e, soprattutto, la possibilità di far parte della cerchia di architetti che ruotano intorno al ‘Movimento di Studi per l’Architettura’, trovandosi, di fatto, nel centro del dibattito architettonico di quegli anni incentrato sui temi del rapporto tra architettura e società.
Nel progetto per la centrale di Ponti sul Mincio, Sgrelli opta per una definizione chiara e ben coordinata con il paesaggio circostante, anche se resta decisamente percepibile il carattere produttivo del complesso. L’architettura risponde a esigenze e logiche di carattere tecnico-impiantistico, ma il controllo dell’articolazione volumetrica e l’uso di materiali caratteristici hanno impresso all’impianto l’immagine di un insieme tecnologico coordinato in tutte le sue parti. Un alto basamento in lastre di Silipol – la stessa pietra artificiale usata dallo studio Albini negli allestimenti della Linea 1 della metropolitana milanese – sostiene il corpo superiore della Sala Macchine, le cui cortine semitrasparenti in U-glass svettano verso il cielo alleggerendo l’imponente mole del volume. Perpendicolare alla Sala Macchine, la Palazzina Quadri (uffici) sovrappone coerentemente all’alto basamento in lastre un cornicione in calcestruzzo a vista che, al contrario, chiude figurativamente il volume e ne sottolinea armoniosamente la differenza funzionale. Tutti gli altri edifici dell’impianto, dall’officina meccanica alla portineria, seguono lo stesso concept, ripetendo anche il ricercato disegno delle aperture ovali contornate di lamiera.
Gli interni degli uffici sono l’espressione più netta della formazione culturale di Sgrelli, e sono paragonabili alle più riuscite contemporanee realizzazioni di Mangiarotti o di Caccia Dominioni, oltre che di Albini del quale vengono utilizzate le lampade “Ochetta” messe in produzione da Arteluce negli stessi anni. Il calcestruzzo martellinato dell’imponente scala elicoidale che distribuisce i tre piani dell’edificio, il ferro sapientemente piegato dei parapetti che proteggono le “logge” della sala macchine, le lamiere verniciate, i serramenti disegnati appositamente, tutto contribuisce a creare un’atmosfera di elegante raffinatezza e a costituire la percezione di un design in grado di controllare, “dal cucchiaio alla città”, tutte le fasi del progetto.
Il trattamento delle aree libere non edificate, pianificato come necessario corollario all’impianto e non come spazio di risulta, partecipa all’inserimento del complesso nel paesaggio: verso il Mincio una generosa cortina di pioppi cipressini raccorda il paesaggio fluviale a quello della centrale contribuendo, con la sua silhouette, a equilibrare la presenza dell’impianto; poco oltre dominano invece sistemazioni a prato in cui il disegno della viabilità è ordinato, razionale e accompagnato dalla piantumazione in filare dei pioppi che qui, oltre a costituire inserimento nel paesaggio, fungono anche da schermo acustico per le emissioni prodotte dalla centrale; oltre viene meno il filare arborato e dominano gli spazi a prato, caratteristici dell’intorno fluviale.
Il complesso come oggi appare ha in realtà subito negli anni diverse trasformazioni, dapprima nel 1983 con il raddoppio della sala macchine, l’entrata a regime di un secondo gruppo caldaia e la costruzione dell’imponente ciminiera alta 150 metri, e poi a partire dal 2002 per convertire l’intera centrale dal combustibile a olio denso al metano, dismettendo i due gruppi caldaia e i tre serbatoi di stoccaggio dell’olio combustibile. La centrale, spogliata quindi delle parti impiantistiche più obsolete, appare oggi ripulita, consentendo una nitida lettura del manufatto architettonico.
Ma la storia dell’edificio e le vicende legate alla centrale di Ponti non sono ancora concluse. Nel 2017 le società proprietarie (A2A, AGSM, AIM Vicenza e Dolomiti Energia Holding), con l’approvazione del MIBACT, hanno indetto un Concorso Internazionale di idee per la riqualificazione della ciminiera del 1983, già sottoposta a un progetto definitivo [2]. A monte di tale progetto risulta di grande interesse lo studio cromatico del manufatto eseguito da Jorrit Tornquist, artista internazionalmente noto per i suoi studi sul colore e autore di altri significativi interventi su manufatti analoghi (termoutilizzatori di Brescia e di Milano), oltre che per l’attuale camino del gruppo a turbogas di Ponti. Obiettivo del concorso è quello di selezionare proposte che definiscano la ciminiera come landmark territoriale e paesaggistico, porta settentrionale del Parco del Mincio e del Mantovano, fulcro visivo del bacino del basso Garda, belvedere e attrattore turistico per la valorizzazione del territorio. Elemento sostanziale del progetto di trasformazione della ciminiera in torre è la sua fruibilità da parte del pubblico, con la possibilità di visitarne gli interni come sale espositive dedicate al Parco del Mincio e alla cultura del suo territorio, e un terrazzo-belvedere in sommità alla quota di 150 metri dal piano di campagna.
Il progetto – il cui iter dovrebbe concludersi nel 2018 – rientra nella tendenza che si va consolidando negli ultimi anni di rendere gli impianti di produzione dell’energia parte del tessuto sociale e paesaggistico di un territorio, o facendo partecipare i cittadini alla vita di queste grandi infrastrutture – in maniera ovviamente protetta ma attiva – come avviene ad esempio per la centrale di cogenerazione di Bressanone (Modus Architects), o entrando a far parte di un territorio generando rapporti di scala, orientamento, gerarchizzazione e rilettura delle attività dell’area, come nel caso della centrale termoelettrica di Termoli (ScandurraStudio, Umberto Riva).
L’evoluzione della produzione dell’energia elettrica, incentivata da diversi fattori (dall’avvento delle rinnovabili all’ammodernamento dei sistemi di produzione) apre così una straordinaria opportunità progettuale. In questo senso la riqualificazione della ciminiera di Ponti sul Mincio, promossa dal concorso che sta percorrendo il suo iter, diventa l’inizio di un nuovo “racconto urbanistico”, simile a quello che gli architetti italiani degli anni ‘60, tra cui Sgrelli trova un posto d’onore, dovettero affrontare nel ridisegnare un panorama produttivo che ha rifondato il paesaggio italiano.
1. Le informazioni sull’attività professionale di Ezio Sgrelli risultano scarse, e sono in buona parte riconducibili agli studi sull’architettura milanese del periodo. Fanno eccezione i documenti conservati dall’architetto Niccolò Belloni di Milano, attuale titolare dello studio fondato nel 1937 da Gian Luigi Giordani al quale negli anni Cinquanta si unirono Ippolito Malaguzzi Valeri e Ezio Sgrelli. Oltre a una rassegna dei progetti di Sgrelli rintracciabili quindi sul suo sito (www.bbarch.it/storia) si è fatto riferimento all’itinerario Ezio Sgrelli a Milano e in Lombardia apparso sul n. 11/12 di «AL», 2010, curato da Belloni assieme a Claudio Bosio e Elisa Mensa, autori di una tesi di laurea (2008, Politecnico di Torino) sull’opera complessiva di Sgrelli.
2. Progetto firmato dallo studio Cicognetti-Piccardi-Vitale di Lonato (BS).
Fonti delle immagini:
Archivio storico presso Centrale di Ponti sul Mincio
Archivio Studio Niccolò Belloni Architetti, Milano