Cosa ci fa un mosaico romano a Castelvecchio, museo d’arte antica, in una città che di musei archeologici ne ha già due e mezzo, quelli civici al Teatro Romano e al Lapidario Maffeiano, e il futuro statale che verrà ad aprirsi, chissà quando, a San Tomaso? Le ragioni che danno conto del progetto mostrato in queste pagine vanno ricercate da una parte nelle vicende relative al ritrovamento di questo reperto, dall’altra nella storia mirabile, eppure di fatto “non finita”, dell’allestimento scarpiano della magione scaligera. Ma andiamo con ordine.
Durante i lavori condotti dal 2011 finalizzati alla protezione dell’Arco dei Gavi che era stato ricostruito a lato del castello scaligero nel 1932 (cfr. «AV» 96, pp. 52-59), sono emerse stratificate testimonianze archeologiche databili dall’età romana sino all’epoca medioevale. Immediatamente a lato dell’Arco, oltre due metri al di sotto del piano stradale e in prossimità del muro di contenimento del vallo, è stato rinvenuto un ampio brano di mosaico (metri 5.10×3.10) che si presentava in buone condizioni di conservazione. Il tema del mosaico è descritto come un “motivo decorativo di tipo geometrico, a cerchi secanti componenti quadripetali bianchi con rettangoli iscritti all’interno, bordato da una cornice con fasce bianche, nere e gialle”.
Con l’obiettivo di conservare questo ritrovamento nelle condizioni più favorevoli e di renderlo visibile alla cittadinanza, si è optato per il suo spostamento in una sede museale. La scelta dell’ala orientale del Museo di Castelvecchio è apparsa la più opportuna per la vicinanza (pochi metri tra l’ambito di rinvenimento e l’ambiente in cui è oggi custodito) e per le potenzialità del luogo.
Il progetto per la collocazione del reperto è stato affidato a Filippo Bricolo che, dopo alcune prove temporanee – le mostre in Sala Boggian dedicate a Caccia Dominioni (2002-03) e Paolo Farinati (2005-06), e quella allestita nel cortile su Pietro Consagra (2007-08) – arriva a mettere a punto un dispositivo spaziale permanente (quel tanto che può esserlo un allestimento) nel museo cittadino.
Occorre a questo punto un flashback sulla storia del Museo. L’ala orientale della costruzione napoleonica, pesantemente danneggiata dai bombardamenti, venne adibita con la ricostruzione post bellica a sala per concerti, in funzione dei quali era previsto un ingresso indipendente dall’esterno del castello, di fronte all’Arco dei Gavi. È per questo utilizzo che Scarpa disegnerà l’elaborata bussola, in asse col percorso interno al cortile tra le due siepi parallele, divenuta però superflua con la decisione di realizzare l’ultima sala del percorso espositivo – la Sala Avena, quella col soffitto in stucco blu cobalto, aperta nel 1976 – in luogo del palcoscenico della sala per la musica. L’ala est è da allora destinata a esposizioni temporanee e conferenze; l’inserimento della “scatola” della Sala Avena nel volume di Sala Boggian ha generato un non-finito tuttora irrisolto – fantastico tema progettuale, quando lo si potrà affrontare… – e l’androne ai piedi della scalinata che ne garantisce l’accesso è rimasto sostanzialmente sottoutilizzato.
È così che la collocazione del mosaico risolve non solo il tema della prossimità col luogo di ritrovamento, ma dà un nuovo senso a questo ambito spaziale. Dalla piazzetta dell’Arco dei Gavi, il serramento scarpiano riacquista luce e senso come ‘macchina ottica’ che inquadra dall’esterno il reperto musealizzato. Dall’altro versante, dal cortile, un portale in ferro crea una soglia che distingue l’ingresso a Sala Boggian dalla nuova Sala del Mosaico.
Vedo, non vedo: il primo sguardo, indirizzato dalla macchina espositiva, cela il mosaico lasciando intatti gli elementi progettati dal Maestro. Una forma di devozione e rispetto. Solo una volta varcato il portale in ferro si manifesta la nuova, “ingombrante” presenza. Le dimensioni notevoli del reperto hanno posto il tema della sua disposizione. L’invenzione del progetto di Filippo Bricolo è di negare il suo ingombro apparentemente ingestibile, disponendo il mosaico sospeso a parete in posizione inclinata con il lato lungo verso la base, su un piano a sua volta non ortogonale alle pareti, per porlo in favore di vista dall’esterno e per agevolare la fruizione da parte di gruppi e scolaresche dall’interno. Non vi è ambiguità che induca a pensare che l’esposizione rispetti la collocazione originaria: negando il principio, teoricamente basilare, che un’opera d’arte musealizzata debba essere collocata in modo da farne comprendere le condizioni per cui è stata creata. Sarà che il mosaico è fondamentalmente un tappeto, che pare volato via con una folata di vento dall’adiacente collocazione originaria per finire appeso come un prezioso arazzo, grazie al dispositivo di supporto che dissimula il suo peso e lo fa galleggiare – complice l’attenta illuminazione – nella penombra. È l’ostensione nella cornice della macchina espositiva a sacralizzare il reperto come reliquia, e dunque pezzo da museo, indipendentemente dal suo valore intrinseco.
In questo senso si comprende l’appellativo di Sala del Mosaico per un ambito che rimane comunque estraneo al percorso museale, sia fisicamente sia come contenuto. Appellativo che viene iscritto nero su nero – ferro su ferro – sul portale di ingresso alla sala, con la citazione “letterale” dei font scarpiani, studiati e integrati per l’occasione dei caratteri mancanti: una colta falsificazione, che ascrive il nuovo intervento entro l’aura dell’evocatissimo Maestro.
A completamento della nuova sala sono stati riattati gli adiacenti bagni per il personale del museo, posti in un punto di passaggio nevralgico e ‘segreto’ negli anditi del castello. Negando il carattere meramente utilitaristico di questi spazi, l’intervento progettuale ha reso leggibile la spazialità originale della sala – il grande arco e l’altezza interna – eliminando le superfetazioni e rifinendo le pareti con una sagramatura in intonaco di calce in modo da porre in evidenza la materialità delle superfici. Una quinta in legno di pitch-pine bruciato, come la bussola realizzata da Carlo Scarpa nella sala a fianco, delimita i bagni nella nuova distruzione. Un lavabo a conci in pietra rosa, ove compiere i gesti della purificazione, sembra sacralizzare in maniera quasi eretica questi spazi; gli sguardi incrociati tra la sala dei bagni e la sala del mosaico, tra lavabo e pavimentazione musiva, creano un’atmosfera da raffinatissimo showroom di sanitari ab antiquo. In questi traguardi mirati attraverso fessure e tagli c’è qualcosa di voyeuristico, complice l’ammiccamento alla fessura-mirino della bussola scarpiana nella lamiera di ferro posta di fronte all’ingresso dal giardino. Ma non è forse puro voyeurismo la contemplazione di un’opera d’arte posta in un museo, in presenza di un gesto che però si è già compiuto e secolarizzato?
Nel passaggio dall’una all’altra sala o negli sguardi dall’esterno, le fotografie di quest’opera svelano a tratti un riflesso, un’ombra, una figura che progressivamente si materializza: è il progettista, in un processo di auto-iconizzazione che mette a fuoco il personaggio dell’architetto di (Somma) campagna. Tanto di cappello.