L’Anfiteatro Arena: una questione da architetti

Il dibattito sul monumento dall’epoca rinascimentale alle odierne questioni sollevate dal concorso

Sin dall’epoca rinascimentale diversi fra i più grandi architetti e progettisti veronesi si cimentarono in quello che, per complessità tecnica e prospettiva storica, sarebbe poi risultato essere l’intervento in grado di ricollegare non solo idealmente ma anche nella materia architettonica e nel tessuto urbanistico la città romana con quella moderna: stiamo chiaramente trattando del lungo percorso di rinascita di cui, fra Cinquecento e Novecento, fu assoluto protagonista l’Anfiteatro Arena – icona della città – e con esso l’ambito della Bra, ideale porta d’ingresso per tutti coloro che si recano a Verona.

Per capire l’importanza del tema basti sapere che, nell’intero e sconfinato territorio di quello che fu l’Impero Romano, Verona fu la prima città, già nel Cinquecento, a dar avvio a tutta una serie di operazioni in grado di porre al centro la tutela e il restauro dell’antico.
Nell’ambiente culturale veronese del Quattrocento, oltre ai poeti e ai letterati, furono proprio due artisti e architetti come Giovanni Maria Falconetto e Fra’ Giovanni da Verona i primi a “riscoprire” l’importanza anche costruttiva dell’Arena, contribuendo in maniera decisiva a modificarne la percezione negativa legata nell’immaginario arcaico medievale alla figura del “labirinto”. Furono tuttavia i disegni architettonici di un pittore come Giovanni Caroto che, nel volume di Torello Sarayna De origine e amplitudine civitatis Veronae del 1540, rivelarono forse per la prima volta alla città la “consistenza” del monumento, attraverso una grande campagna di indagini e rilievi connotati da un rilevante e inedito interesse archeologico, poi ulteriormente migliorata nel 1560.

Nello stesso periodo, tra il 1530 e il 1560, giunsero in riva all’Adige alcuni fra i più celebri e colti architetti dell’epoca (fra cui Sebastiano Serlio, Andrea Palladio, Giovanni Battista e Antonio da Sangallo, Baldassarre Peruzzi) per visitare e rilevare l’antica fabbrica, che si presentava in uno stato di avanzata rovina ma offriva comunque dettagli costruttivi e stilistici di straordinario interesse, nell’ottica della generale riscoperta del classico. Gli architetti non solo ne rilevarono le vestigia ma furono anche in grado di ipotizzarne gli elementi mancanti, in parte o in toto, come nel caso delle gradinate della cavea, delle scale interne e del loggiato superiore. A Palladio in particolare va riconosciuto questo merito, tradotto in alcuni disegni di particolare interesse e precisione.

Il gigante indiscusso dell’architettura veronese, Michele Sanmicheli, oltre a permeare gran parte delle sue opere dell’influsso stilistico del monumento romano, ebbe sicuramente il merito di porre le basi della grande trasformazione urbanistica della Bra con la ridefinizione a sud della cinta cittadina e la costruzione di Porta Nuova con cui la piazza e l’Arena divennero baricentriche rispetto al nuovo assetto urbano avviando il lungo iter che, fra alti e bassi, alla metà dell’Ottocento vedrà il completamento della cornice monumentale della piazza.
In questo clima di grande coinvolgimento rispetto al destino della città e del suo principale monumento, la decisione più significativa fu adottata dalle autorità comunali il 24 maggio 1568, che con la delibera intitolata “Pro instaurando Amphiteatro” approvarono e finanziarono parzialmente la ricostruzione delle gradinate della cavea e la riparazione di altri “guasti” dell’edificio, sulla base di una “peritorum sententia”, ovvero di un progetto basato sugli studi fino ad allora realizzati dai “periti” architetti, in particolare – si pensa – da Caroto e Palladio.

I lavori presero il via nel 1569 con la ricostruzione di alcuni vomitori d’accesso alla cavea, mentre al 1570 appartiene la “prima pietra” della nuova cavea, ricostruita seppur in un assetto diverso da quello romano nel corso di un lunghissimo cantiere che si protrarrà sino agli inizi del Settecento. Nel corso del Seicento, mentre sulla cavea il cantiere proseguiva, gli arcovoli esterni iniziarono ad accogliere nuove funzioni, in particolare botteghe, laboratori artigianali e osterie che, nell’arco di alcuni decenni, occuparono quasi tutti gli spazi interni del monumento, aggiungendo all’uso commerciale collocato al piano terra quello residenziale, al di sotto delle arcate del primo piano.

Nel XVIII secolo una figura su tutte contribuì in maniera decisiva agli studi e ai restauri dell’Anfiteatro: il marchese Scipione Maffei. Il suo trattato “Degli Anfiteatri e singolarmente del Veronese”, pubblicato nel 1728 e coadiuvato dai disegni dell’ingegnere e architetto Saverio Avesani, rappresenta una svolta fondamentale verso un rinnovato approccio scientifico e archeologico al monumento, preoccupandosi prima di tutto della sua tutela.

Ma il Settecento fu anche il secolo del Gran Tour, in cui Verona divenne una delle principali “porte d’ingresso” alla romanità del bel paese per i viaggiatori provenienti da tutta Europa. L’Arena rappresentava chiaramente il centro di questa grande celebrazione dell’antico volto di Verona e fu degnamente ritratta in numerose stampe ed incisioni, con intenti non solo artistici e divulgativi ma anche, in qualche caso, scientifici: così fu, ad esempio, nella celebre tavola composta nel 1744 dall’architetto Adriano Cristofali, che spicca sulle altre per l’originalità e l’accuratezza nel riprodurre fedelmente molti dettagli costruttivi, inclusi gli interrati per come si conoscevano allora. Lo stesso Cristofali dopo la morte di Maffei (1755), guidò i successivi sforzi per la salvaguardia dell’anfiteatro.

Più tardi, nel 1801, di fronte alla scarsa efficacia dei provvedimenti sino ad allora adottati per impedire lo stillicidio delle acque dalla cavea, il Governo Provvisorio della città incaricò l’allora Accademia di Agricoltura Commercio e Arti di trovare una soluzione a tali problematiche. L’idea fu quella di bandire un concorso, incredibilmente innovativo: «Qual cemento, per sicura e ben applicata esperienza, resistendo all’umido e al secco, potrà perfettamente impedire la filtrazione delle piogge tra le pietre, i muri, e le volte dell’Anfiteatro, non trascurando, se può combinarsi, l’economia?». Il concorso dell’Accademia inaugurerà una straordinaria e proficua stagione di studi, perizie, esperimenti e innovazioni tecnologiche – sovrintesi dai principali architetti della città – che nell’arco di tre decenni porteranno a rivoluzionare sia i metodi sia i materiali per il restauro e la costante manutenzione dell’Arena, richiamando tutte le più significative e avanzate ricerche sulla chimica dei materiali a livello europeo.

All’inizio dell’Ottocento l’Arena divenne per Verona una questione civica di primaria importanza, al punto che, al di là degli interventi diretti sul monumento, l’interesse finirà inevitabilmente per coinvolgere un ambito urbano ben più ampio.
Nel caso specifico della Bra, è da notare come tra coloro che a diverso titolo (architetti, cultori d’arte, amministratori) concorsero a presentare proposte per la definizione urbana e architettonica della piazza, vi furono anche i principali fautori del restauro dell’Anfiteatro: tra questi gli architetti Bartolomeo Giuliari, Luigi Trezza, Giuseppe Barbieri, che erano direttamente coinvolti negli scavi e nelle manutenzioni dell’Arena, ma anche Saverio Dalla Rosa e Gaetano Pinali.

Si rileva inoltre un altro aspetto interessante: le principali funzioni – pubbliche e private – accolte negli edifici di progetto che in alcune proposte dovevano rimodellare drasticamente l’importante spazio urbano, sono le stesse che gli architetti-archeologi volevano pervicacemente “estirpare” dalla cavea e dagli arcovoli dell’Arena. Mentre il nuovo livello da dare allo spazio urbano e alle vie limitrofe era ovviamente impostato a partire dai lavori di sterro, attuati in quegli anni per recuperare l’originale piano di spiccato delle murature romane. Esiste quindi un chiarissimo legame causale tra l’intervento diretto sul monumento, per la rimozione delle strutture aggiunte e liberazione dalle funzioni considerate incongrue, e quello di respiro urbano destinato a riconfigurare l’intera piazza e le sue adiacenze anche al fine di alloggiarvi le attività rimosse dall’Arena in nuovi edifici progettati ad hoc per questo scopo: in primis il teatro diurno e le funzioni mercantili.

Bisogna infatti ricordare che l’Anfiteatro nei primi anni dell’Ottocento era ancora quasi completamente occupato da abitazioni e botteghe, mentre la piazza risultava caratterizzata dalla presenza monca del seicentesco palazzo della Gran Guardia e da quella del “nuovo” ospedale della Misericordia, la cui facciata colonnata – da poco realizzata – ne aveva reso ancor più ingombrante la mole e aveva subito suscitato molte polemiche.
Nel 1816, in occasione del soggiorno veronese dell’Imperatore Francesco I e della consorte Maria Teresa Carolina di Borbone-Napoli, Bartolomeo Giuliari, incaricato nella sua veste di architetto della direzione degli spettacoli, attuava i primi importanti lavori di liberazione dell’Arena al fine di «vedere il principale vestibolo appianato sino all’originaria sua base e tutto sgombro de’ materiali cui era sepolto, e tolte affatto le deformi abitazioni che l’occupavano». Furono proprio i concreti risultati di quei lavori a incoraggiare Giuliari e il municipio a proseguire negli scavi interni ed esterni al monumento, puntualmente registrati tra il 1817 e il 1842.

Se già nel 1819 il conte Giuliari aveva poi dimostrato fastidio nel dover forzosamente interrompere gli scavi nel centro dell’ellisse a causa della presenza dell’importuna struttura lignea del palcoscenico di un teatrino diurno, l’anno seguente – definito da Bartolomeo «il più favorevole al nostro Anfiteatro» – e in contemporanea con la proposta di riassetto della piazza da parte di Pinali, il podestà Giovanbattista da Persico avviava la prima «liberazione» degli interni del monumento dalle abitazioni e botteghe che fino ad allora vi avevano trovato sede sulla base di un decreto governativo che imponeva che tutte le imposte dei portoni delle case delle città dovessero aprirsi esclusivamente verso l’interno.
Il nuovo assetto della Bra contestualmente proposto al fine di liberare l’Arena dalle «deturpanti» funzioni interne e dal tessuto edilizio circostante che ne occludeva in parte la visuale, assumerà per i decenni a seguire il valore di piano-guida per gli interventi di ridefinizione del disegno urbano del nuovo polo cittadino. E anche se l’edificio realizzato da Barbieri – pur richiamandone esplicitamente le forme – non ospiterà le funzioni previste da quello proposto da Pinali, le contestuali polemiche di Giuliari e degli altri eruditi contro «l’indecente baracca» posta al centro della cavea, sortiranno l’effetto di allontanare – almeno provvisoriamente – il teatrino diurno dall’anfiteatro, spostandolo nella vicina piazza Cittadella.
Nel 1873 inoltre, «l’atterramento delle case che circondano l’Anfiteatro», sarà visto da Antonio Pompei – l’ultimo studioso dell’Arena, a cui si dovrà il “ragionato ristauro” che riformerà quasi la metà della cavea fra il 1880 e il 1885 – come una occasione irrinunciabile per verificare la sua teoria sull’esatta localizzazione delle cosiddette mura di Gallieno, introducendo così il tema che invece caratterizzerà i rapporti tra archeologia e pianificazione nelle elaborazioni presentate in occasione del concorso per il piano regolatore del 1931.

Il rapporto tra i tecnici e gli intellettuali della città con il loro anfiteatro non si fermerà nemmeno alle soglie del Novecento, e le vere e proprie battaglie dell’ingegnere Alessandro Da Lisca prima e dell’architetto Piero Gazzola poi, contro le menomazioni, le manomissioni e gli abbruttimenti inferti all’anfiteatro allo scopo di adattarlo a luogo di spettacoli, ne sono testimonianza nel momento in cui il monumento si stava inesorabilmente trasformando in “contenitore” di spettacoli, se non in una umiliante scenografia di eventi vari. Gli interessi economici stavano infatti prevalendo definitivamente su quelli conservativi e a fronte di continue manomissioni della materia perpetrate per l’inserimento dei servizi necessari alla stagione lirica, si stava assistendo inoltre ad una significativa contrazione degli studi.
Gli architetti veronesi dalla seconda metà del XX secolo non si occuperanno più del loro anfiteatro, se non per sterili esercizi pindarici e proposte bizzarre che sono culminati oggi nella tragicomica occasione del concorso per la copertura, un’ipotesi la cui sola idea avrebbe in passato portato al ludibrio generale – se non allo sdegno da parte di quell’élite intellettuale che abbiamo sopra tratteggiato che – non ci sono dubbi – si sarebbe levata all’unisono contro un tal volgare scempio.

Al di là degli interventi previsti dal progetto Art-Bonus – appannaggio soprattutto di ingegneri, in apparente contrasto con la normativa (sic!) – il vero tema progettuale da affrontare è invece oggi quello di una seconda liberazione dell’anfiteatro dalle strutture necessarie all’uso teatrale che lo infestano, sia all’interno che all’esterno, tanto che durante la stagione estiva pare essere un grande e disordinato cantiere edile, con tanto di gru a torre… Sarebbe qui sì necessario un progetto – questo davvero utile, concepito non per escludere ma per rendere più compatibili le attuali funzioni – che potrebbe coinvolgere gli spazi del vicino edificio che ospita la sede della circoscrizione e le scuole, il quale opportunamente ripensato con un progetto ambizioso sarebbe destinato all’alloggiamento temporaneo delle ingombranti scenografie e degli altri servizi necessari a un grande teatro, degno di questo nome. Pur da convinti conservatori, pensiamo infatti che quella architettura di Ettore Fagiuoli – delle più trascurabili del grande architetto – possa cedere il posto a qualcosa di più interessante e potenzialmente rigenerante per l’intero settore urbano e per la città, che magari possa prevedere anche un sistema per lo spostamento degli apparati scenici appositamente pensato per l’Arena, in sostituzione dell’attuale incongrua gru: una sorta di grande e innovativa macchina scenica.

Altro tema importante sarebbe poi quello di una seria musealizzazione di almeno una parte degli arcovoli interni e degli interrati – facilmente attuabile con l’ausilio delle tecnologie più avanzate, nel totale rispetto dell’esistente – per mettere in mostra una mole di ricostruzioni, documenti e iconografie oggi in gran parte inedite assieme alle molte “storie dell’Arena”, per una fruizione di visita all’altezza di quello che è il terzo sito archeologico più visitato d’Italia, dopo i circuiti del Colosseo e dei Fori a Roma e quello di Pompei e Ercolano in Campania.
Dopo i grandiosi interventi ottocenteschi, sarebbero questi oggi i temi per dei veri concorsi di architettura – degni di una città europea – su cui discutere e dibattere e non quello d’una copertura, su cui ci auguriamo vivamente possa essere steso “un velario pietoso” nel più breve tempo possibile.