Porosità urbana

Un monolite sospeso nel fronte stradale di un sobborgo della bassa veronese affida all’iconico colore della massa muraria il suo tratto distintivo

Testo: Alberto Vignolo
Foto: Marco Zanta
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La carta da zucchero: è un materiale d’altri tempi, scomparso dall’uso e rimasto nel linguaggio unicamente a denotare il colore di questo antesignano packaging, che affiora alla mente per associazione di idee nel pensare a un elemento, a una chiave di lettura identificativa e sintetica che connoti la realizzazione che presentiamo in queste pagine.
Il colore è il dato percettivo della massa – porosa, permeabile, in parte scavata e in parte estroflessa – di cui l’edifico è composto, e la facciata su questa Strip de noaltri nella bassa veronese affida il suo iconico carattere a una sorta di pieghettatura a effetto pop-up della superficie del prospetto. Ecco dunque il foglio di carta da zucchero, che già da questa sua diversità cromatica inizia a raccontare di sé e del rapporto dialettico con il contesto in cui è realizzato.

Ci troviamo infatti in uno dei tipici sobborghi di città veneta, lungo una delle arterie che alimentano di sangue veicolare l’abitato di Legnago, distaccandosi dal sistema circolatorio della viabilità di scorrimento. Un contesto caratterizzato da edifici a due-tre piani allineati sul fronte stradale, cimosa del tessuto urbano che si allunga nelle profondità dei lotti dove genti, case, magazzini e porzioni di vuoto si sono accumulate in maniera disorganica.
Ma proprio dall’apparente marginalità del luogo deriva l’occasione di riscatto: la grande visibilità del passaggio – e qualche incentivo edilizio – danno origine ad alcuni interventi di riqualificazione che iniziano a sorgere lungo la strada: qualcuno è maldestro, e lo si nota perché il volume in ampliamento stride vistosamente in altezza.

I nostri autori – Andrea Ambroso, Enrico Dusi e Saverio Panata – si pongono, nonostante l’evidente scarsa qualità dell’edilizia circostante, in atteggiamento di rispetto. “è la realtà, bellezza”, per dirla con una battuta da film: i vicini non si scelgono (così come i parenti) ma ci si convive, confronta e dialoga. Il nuovo edificio è come un monolite sospeso tra gli edifici adiacenti, dei quali rispetta rigorosamente allineamenti e filo di gronda.
La sezione rivela il tratto di falda fortemente inclinata – entro la quale è ricavato un terrazzo a tasca – grazie alla quale il volume aggiunto all’ultimo piano è dissimulato rispetto alla percezione dalla strada.
L’attacco al suolo è completamente vetrato e arretrato, per accentuare l’effetto di sospensione del volume. Anche grazie a una accorta distribuzione degli arredi dello spazio commerciale, è possibile traguardare verso l’interno del lotto, cogliendo la grande profondità dell’area di pertinenza: una stretta striscia tra i muri ciechi e gli affacci degli edifici adiacenti, pensata come un giardino murato, duro e cementizio nell’uso dei materiali, dove il verde ha un valore di superficie e non di massa, in funzione di schermo, quinta e di elemento del disegno del suolo.

Tra il fronte su strada e quello sul retro, posti i caratteri assai differenti degli affacci, si coglie una evidente dicotomia. La dimensione plastica delle logge e dei bovindi su strada è pensata per una visione dinamica e di scorcio, e la grande dimensione delle finestrature, quasi a tutta parete per ogni ambiente, accentua il carattere nordeuropeo di questa architettura, dove gli spazi interni sono proiettati in pubblico senza alcuna padana ritrosia: con tanto di introspezione voyeuristica, complice qualche lampada malandrina accesa di sera, e nonostante l’Adige a Legnago non somigli certo a un canale di Amsterdam. Ma le assonanze scorrono, talvolta, su fiumi mentali sottili.
Il fronte posteriore si confronta invece con una visione frontale: il ritmo sfalsato dei tagli verticali delle finestre e degli sporti dei balconi – al primo livello estroflesso, poi a sbalzo e più su scavati nel volume che arretra – porta lo sguardo verso l’alto, dove un nastro vetrato segna l’alterità del grande alloggio posto all’ultimo piano (al piano secondo gli alloggi sono due, mentre al primo sono ricavate due unità ad uso uffici). Il risvolto del rivestimento metallico della copertura segna, come una grande trave di bordo, il coronamento dell’edificio.

Il nocciolo distributivo dell’edificio è centrale, consentendo per il corridoio di accesso un ulteriore taglio di permeabilità visiva, a piano terreno, tra la strada e la corte. Il nero dell’asfalto della strada sembra penetrare nell’edificio e, letteralmente , salire le scale: pedate e alzate sono rivestite in ceramica nera, e la parete di fondo color giallo segnale sottolinea l’implicita citazione.
Su questa parete sono posati con gusto grafico corpi illuminanti lineari simili a tubi al neon, mentre in copertura un lucernario ritagliato a spigolo vivo inquadra un frammento di cielo: un po’ di Dan Flavin, e un po’ di James Turrel.

La matericità del progetto esprime in maniera sintetica il suo carattere dimostrativo e asciutto: in fondo si tratta di un “banale” edificio intonacato (ma è il colore a riscattarlo), in fondo i serramenti sono di alluminio (ma il disegno li enfatizza e li riscatta dal vituperio di cui questo nobile materiale è vittima), i parapetti sono semplici telai metallici con reti, ma il controllo del dettaglio fa sì che non sembrino degni di nota. In ciò consiste, per l’appunto, la bravura dei progettisti: nel non dare segno a ciò che non deve averne.

LOCALITÀ:
COMMITTENTE
Privato


PROGETTO ARCHITETTONICO
Andrea Ambroso, Enrico Dusi, Saverio Panata (Spedstudio)

RESPONSABILE DI PROGETTO E D.L.
arch. Enrico Dusi


COLLABORATORI
arch. Elisabetta Ardolino

CONSULENTI
ing. Filippo Aio (strutture e impianti meccanici)
Studio Rosa (impianti elettrici)


CRONOLOGIA
Inizio progetto: 2010
Fine lavori: 2014