C’è stato un tempo in cui si pensava che ogni trasformazione urbana dovesse nascere da un’idea generale di città, espressa in un disegno normativo complesso da attuare per parti attraverso ulteriori regole di scala via via più fine, per arrivare in cascata al progetto architettonico come esito logico e necessario. Un’idea generale che da una volontà di forma rappresentata iconicamente, si è fatta via via sempre più diagrammatica tanto da farsi quasi incomprensibile – ah, i retini… – ma comunque presupposto e regola entro cui trovare opportunità e, in ultima istanza, dargli forma compiuta attraverso gli esiti costruiti. Tempi gloriosi andati, si dirà: archeologia del fare città.
Lasciando agli archi-cinefili la visione di queste pratiche d’essais, i progetti di trasformazione urbana che vediamo oggi, come quelli proiettati sullo scenario battuto e ribattuto di Verona Sud – ci mostrano il passaggio dall’eccezione – l’area dismessa, discontinuità improduttiva del tessuto urbano – alla regola: vuoto uguale deroga uguale bonus. Così ha fatto recentemente l’amministrazione cittadina attraverso la call “Vuoti a rendere”: un cambio di paradigma che, se nasce dall’intento di favorire il recupero di edifici o parti di città, evitando così in parallelo il consumo di suolo, ottiene l’effetto paradossale di mettere in primo piano il contenitore da riempire – il vuoto, per l’appunto – ai contenuti – gli effettivi bisogni di una comunità. Il famoso carretto davanti ai buoi? Certo, non possiamo più pretendere di programmare e preordinare lo sviluppo (avercelo!) di una città, e occorre pertanto cogliere occasioni e opportunità, come quelle generosamente messe in campo dal cosiddetto Sblocca Italia: un provvedimento che consente in deroga allo strumento urbanistico comunale gli interventi di rigenerazione urbana, ristrutturazione edilizia e riconversione funzionale di fabbricati produttivi dismessi (i vuoti, i vuoti…). Ecco il motorino di avviamento capace di rimette in pista vecchie carrette e farli diventare nuovi bolidi rombanti: ecco i progetti per la ex Manifattura Tabacchi e per la ex Safem presentati nelle pagine che seguono che, pur con le dovute differenze, per ruolo urbano e relazioni potenziali fra di loro e con le aree contermini ancora rimaste al palo (ex Cartiere), incomplete nonostante le pluriennali aspettative (ex Magazzini) o attese, anzi per meglio annunciate (ex Scalo merci), ridisegnano interamente lo scenario urbano di Verona Sud. Rimangono le incognite, sulla direttrice stazione ferroviaria-Fiera, dei due capisaldi agli estremi: da una parte per il passaggio del tracciato dell’Alta Velocità con la nuova stazione, ancora da definire nel merito (anche come volano per la riconversione dello scalo merci); dall’altra per la sostanziale autonomia e scarsa permeabilità della cittadella fieristica, tenacemente rinserrata al proprio recinto, con qualche segnale di apertura (Ingresso Re Teodorico) a sud, mentre è da nord che le viene incontro la nuova piazza disegnata a suggello della rigeneranda Manifattura Tabacchi.
È proprio sul disegno degli spazi aperti, vera e propria “struttura che connette”, che si gioca la capacità di mettere assieme il mosaico dei progetti, a partire dai diversi modelli prospettati. È bastato vedere le premesse di apertura e permeabilità urbana su cui si basa il concept per la ex Manifattura Tabacchi per disvelare il sostanziale fallimento del suo gemello diverso, il triangolone degli ex Magazzini generali, rimasti ancora rinserrrati dentro una muraglia scalcinata che ne rappresenta la sostanziale autonomia di cluster direzionale, e poco più. Così come, il giorno che venisse meno il limite fisico attorno all’attuale scalo merci ferroviario, non basterà quel gesto a farne un pezzo di città, tanto quanto non bastano gli alberi per fare un parco.
Una visione parcellizzata, area per area, rischia di perdere d’occhio il sistema della mobilità – a di là delle solite e pur benedette rotatorie – e di mettere a dura prova le reti infrastrutturali; dovrà fare sintesi il passaggio da tempo atteso del sistema di trasporto di massa (filobus), mentre una visione globale di mezzi e flussi si affanna nell’inseguire a posteriori trasformazioni derivanti da processi in deroga e quindi aliene da ogni previsione ex ante.
A partire da questi interrogativi si manifesta la necessità di elevare lo sguardo per tornare a una dimensione unitaria, a un’idea generale entro la quale il mosaico delle trasformazioni urbane – quelle più vaste e incisive, ma anche quelle di grana minuta – possano essere letti come parte di un tutto, quel progetto di città che ne esprima l’identità guardando al futuro. Tocca necessariamente agli enti pubblici tirare le fila e dettare le regole, se condo dinamiche oramai collaudate: il privato propone, il pubblico dispone con le dovute contropartite. L’equilibrio sta tutto lì, nella lungimiranza del privato e nella sua capacità innovativa, per chi ce l’ha, e in parallelo nella risposta proattiva del pubblico: giocare al compromesso e tirarla in lunga, o gestire la trasformazione come opportunità da cogliere al volo? Sul bilancio finale di tale operazione peseranno, in ordine sparso: la forza innovativa dei progetti, la lungimiranza dei committenti, una visione non ostativa dei burocrati, la capacità di sintesi e indirizzo degli amministratori, la matura consapevolezza dei cittadini. Per un nuovo bilancio su Verona Sud, appuntamento ai lettori affezionati di «AV» tra un decennio circa, come oramai da tradizione. •