Sul cuore della città, e d’altri organi

Usi e abusi di luoghi e monumenti notevoli, e usi improbabili di una ventilata pratica concorsuale

È una breve passeggiata nel cuore della città – la metafora organica risulta un po’ appannata, ma d’obbligo – quella che ci conduce attraverso i luoghi simbolo più celebri, ma al tempo stesso più consumati e consumistici di Verona. Analogamente al nobile organo, il centro cittadino rappresenta infatti non solo il motore circolatorio e propulsore della vita urbana, ma anche il simbolo di una sua dimensione allegorica e retorica, sotto il segno dell’ineffabile accoppiata cuore&amore. Bastano quattro passi di cardiofitness per le vie del centro – via Cappello e dintorni su tutte – per coglierne la degenerazione. Il brand del vigoroso muscolo rosso infesta ogni luogo, edificio, manifestazione, evento e ricorrenza. Dal mito si tracolla alla mitomania: chi si ricorda più del geniale estro creativo di Antonio Avena? Chi era costui, forse un avo di Cristina D’Avena? I nobili versi della tragedia letteraria di Giulietta e Romeo sono ridotti a una sorta di griffe G&R, testimonial in passerella i due infelici morosetti veronesi. E poi: festival, premi, rappresentazioni teatrali, souvenir, paccottiglia, ricami, dolciumi; arsenico e merletti. Altro che cuore: un limone transgenico bello rosso e grosso, un megafrutto succoso e succulento da spremere, a cui la città draculescamente si abbevera. Ce n’è per tutti: il che vuol dire, ovviamente, per pochissimi.
L’altro frutto di stagione ancora più gustoso e zuccherino è, due passi più in là nel cuore della città, l’Arena. Molto più che alla consumata protuberanza bronzea della Giulietta posta nel cortile di Casa sua (per la quale si è dovuti ricorrere a un’ operazione di mastoplastica metallurgica, in rammendo alle turistiche toccacciate), la grande mammella che dà nutrimento non ai figli della lupa, ma ai tris-tris nipoti dei romani costruttori venuti su in riva all’Adige, è l’insigne anfiteatro. Come una gigantesca nutrice dal lapideo ventre, Mammarena da tempo immemore è fonte di grande ricchezza per la città, grazie alla stagione lirica estiva e, sempre più, ai concerti e agli eventi che a questa si affiancano. Le condizioni del monumento – ebbene si, vale la pena ricordarlo: trattasi di un monumento – sembrano cosa noiosa, giusto per quattro rompiscatole di architetti o, peggio ancora, di soprintendenti. Le problematiche che l’uso-abuso dell’Arena ingenera sono molteplici, da quelle propriamente conservative – sigillature delle gradinate, smaltimento delle acque meteoriche, recupero degli arcovoli – a quelle dovute agli spettacoli – impiantistica, impatto degli apparati scenografici, movimentazione e accumulo delle scene nella piazza, eccetera. Molto ci sarebbe da fare a questo riguardo, per tenere d’occhio il ritmo e il battito di questo anziano cuore monumentale, e alcuni interventi sono del resto in programma.
Ma accanto a questi temi, ciclicamente come il cambio delle stagioni ritorna alle cronache l’idea di una copertura, per la quale è in vista un concorso di idee. Forse confondendo l’anfiteatro veronese con l’anfiteatro Flavio, il più illustre degli omonimi se ne è fatto anfitrione, complice il munifico intervento di un patrocinatore privato. Mutatis mutandissimis, le questioni in gioco però non cambiano. La realizzazione di una chiusura superiore, anche se leggera e temporanea, viene infatti prospettata in funzione del suo utilizzo come luogo di spettacolo: che è propriamente la destinazione d’uso originaria, e che mantiene vivo il monumento in quanto elemento pulsante (ecco di nuovo il cuore) della vita urbana, e non solo oggetto “imbalsamato”. Ma fino a che punto possono spingersi le esigenze derivanti dall’uso, rispetto allo status di monumento?
Si dirà: tecnicamente tutto è possibile, e non vi è dubbio che una consultazione su questo tema possa essere una sfida stimolante per i progettisti. Già ci possiamo immaginare un toto-partecipanti attingendo alla nutrita schiera delle archistar mediatiche: immancabile un’ostrica, o forse meglio un bogone parametrico e sinuoso, alla Zaha Hadid, accanto a una sottile trama di elementi metallici hi-tech di un Norman Forster (strutture: Arup); e poi una eterea e impalpabile bolla giapponese alla Sejima, un velario rossofuoco con uno svettante saettone di sostegno à la Nouvel, una bignolata al titanio di Mario Bellini d’après Gehry a fianco di una soluzione storicistica di qualche erudito accademico (qui i nomi possono essere molti)… e il gioco potrebbe continuare.
Ma se il percorso è quello prospettato, ovvero di partire dal “cappello” del concorso e non da un serio percorso conoscitivo generale sul monumento, l’impressione è che l’unica copertura possibile sia quella mediatica, col rischio che gli esiti rimangano una semplice boutade. E forse l’obiettivo è proprio questo: velare, simbolicamente, le cosiddette vergogne, organi meno nobili del cuore ma pur sempre necessari alle funzioni vitali e posti un po’ più giù, lì dove lo sponsor del concorso ha costruito le sue fortune. Una colata di microfibre ci seppellirà.