Chi come me percorre, anche saltuariamente, la circonvallazione che corre tra Porta Vescovo e lungadige Porta Vittoria, avrà senza dubbio capito di cosa si tratta: del semaforo di Porta Vittoria appunto (più precisamente di viale Partigiani) cui si deve il merito non solo di regolare il traffico ma di proporre, con i suoi fermi ciclici, l’ostensione (by your car, free and speedy) del basamento del cosiddetto Tempio di Giove Lustrale. Recuperando i numerosi articoli, appelli, richiami che la vecchia divinità olimpica ha ogni tanto ispirato a qualche nostro concittadino, scopriamo tuttavia che anche tale edificio di epoca romana ha come noi viaggiato un po’ per Verona e come noi, arrivato al semaforo di Porta Vittoria, sembra essersi fermato in attesa di un “verde” che, per lui, tarda ad arrivare.
Ripercorriamo brevissimamente il tragitto di questo edificio, studiato con grande attenzione e amore (perché no? è il caso di dirlo) da un importante collega come Vittorio Filippini, che fu, come alcuni studiosi hanno giustamente detto al loro tempo (Gazzola) e ricordato più recentemente (Brugnoli)[1] “profondo conoscitore del tessuto edilizio, specialista di topografia antica, scrupoloso ricercatore; anzi i suoi scritti (specie su «Vita Veronese» e «L’Arena») sono quantitativamente assai scarsi rispetto alla mole di lavoro svolta, e ciò per il carattere perfezionista e mai soddisfatto dei risultati raggiunti”. L’iter del nostro, chiamiamolo per semplicità (e per buona pace degli studiosi), edificio cultuale romano, inizia nel 1930: durante gli abbattimenti di alcuni edifici situati nel bel mezzo dell’attuale via Armando Diaz aperta per consentire l’accesso al Ponte della Vittoria, da poco progettato, furono eliminati alcuni edifici che avevano fagocitato all’interno delle loro superfetazioni, ampliamenti, trasformazioni, la chiesa di San Michele alla Porta; questa, di fondazione antichissima e soppressa nel 1806, aveva a sua volta integrato nelle proprie fondazioni il nostro edificio cultuale romano: evidentemente, come prassi a tutti nota, anche nel nostro caso l’edificio cristiano cresce, senza soluzione di continuità, sulle fondazioni di quello “pagano”.
Tra i documenti conservati presso il Nucleo Operativo di Verona della Soprintendenza Archeologica (che ringrazio per la disponibilità), esistono dei precisi rilievi del manufatto: l’edificio doveva essere bello e interessante. Bello perché si trattava di un manufatto con scalinata esterna e pronao corinzio su alto podio evocata, pur con tutti gli accenti anche del sogno (che sono preferibili comunque all’oblìo), in questa bella immagine del Filippini, molto più chiara di tante astruse, incomprensibili, inadatte descrizioni; interessante perché, insieme all’Arco dei Gavi, il cui posizionamento moderno consente di celebrare oggi i trionfi recentissimi dell’edilizia residenziale di Borgo Trento, era un segno molto forte e chiaro della struttura urbana della città al I sec. d.C; anche un guidatore sbadato come me avrebbe compreso il senso dell’allineamento visivo arco-(edificio cultuale, un po’ più in disparte)-Porta Borsari; chissà perché, tale allineamento, sopportato per circa 1700 anni (quando fu spostato l’arco?), divenne ad un tratto insostenibile; ma il fatto che io sia un guidatore e che solo dall’abitacolo della mia automobile mandi gridolini di disappunto contro certe situazioni mi da già la (meritata) risposta. I grafici redatti dalla Soprintendenza Archeologica, diversamente dal Filippini, ci descrivono invece ciò che venne trovato sotto il piano di campagna: un locale ipogeo voltato a botte (forse da integrarsi a un sistema di passaggi d’acqua probabilmente collegati all’Adige, vicinissimo, aggiunge il Filippini); attorno al sito: un frammento di colonna, lacerti di cornice corinzia, elementi lapidei [2].
Cosa vi si facesse in tale edificio non è chiarissimo, ma per “analogia” al ritrovamento di alcune lapidi nelle vicinanze (non proprio in situ, a dire il vero) dedicate a Giove Lustrale, è bello pensare (a me piace) che l’edificio fosse un manufatto posto nel pomerio, in una zona dunque “protetta” ( gli esperti del diritto romano sanno perché), in cui praticare una bella e salutare abluzione purificatoria; opportunità data al viandante ( e ai cittadini) di farsi un esame di coscienza prima di entrare nel “consorzio civile”. Nel caso si fosse trattato di una tomba invece, come il Soprintendente Alessandro Da Lisca sostenne all’epoca del ritrovamento, ragione in più per farsi un esame di coscienza. Un po’ per fretta un po’ non so, la stanza ipogea venne abbandonata (distrutta?) e l’edificio cultuale, in pieno divieto di sosta perché in mezzo alla futura carreggiata alla memoria di Diaz, viene rimosso: spostamento della sua parte basamentale superstite in piazza Santi Apostoli, dove viene parcheggiata per qualche anno; al suo posto era rimasta, fino a qualche anno fa, la traccia del sedime dell’edificio marcata sul selciato di cubetti di porfido con pietra più chiara; i lavori dell’ultima pavimentazione hanno rimosso, al volgere del nuovo millennio, anche quello: forse non era posizionato correttamente? Era brutto? Era inutile? Certo che ora via Diaz ha conquistato finalmente quell’ordine tanto rassicurante quanto insulso.
Successivamente, il nostro edificio abituato alle rimozioni forzate riparte e approda in circonvallazione, al semaforo di Porta Vittoria, dove però sembra essersi inchiodato; avrebbero forse sperato che prendesse la circonvallazione e uscisse (finalmente) da ogni tipo di pomerio veronese? E invece ancora lì sta: in una specie di limbo urbano assieme al nome di Emilio Moretto, eponimo da qualche anno del “giardino” [3] pre-cimiteriale. E se invece lo spostassimo da lì, col solito mezzo della rimozione forzata e gli facessimo riguadagnare uno stallo magari in prossimità di qualche museo archeologico, eliminando… un residuale parcheggio di auto e riqualificando giardinetti senza idee (senza nemmeno quella di poter toccare l’erba)? Ci pensate al titolone scandalistico “rifunzionalizzazione di un tempio romano”? “Si usa un tempio romano come bijou di urban design”. È più interessante, quando già la devastazione ha fatto il suo corso, perdersi in discussioni filologico-amministrative-economiche o onorare, come si deve, come si può, una memoria negletta? Certo la casa di Giulietta (equivalente medievale di quella della Barbie) non sembra aver suscitato tante sacrosante titubanze scientifiche o filologiche…
Ritornando a noi, ho smesso di passare in auto da viale Partigiani; vado a piedi o in bicicletta (sono fortunato) a vedere i quattro bellissimi (tristissimi) sassi bianchi. Ma poi ogni volta che ritorno in centro, passato il Ponte Navi verso San Fermo, mi si para davanti… un altro sasso??! Sotto un ulivo troppo annaffiato, dietro la statua del Re Umberto I, che l’allestimento odierno trasforma in uno spione tra le fronde, con tanto di pastrano abbottonatissimo (“che ci fa lì in quella postura… cosa vuole da me?”si chiede il passante), con le spalle rivolte all’osservatore (qui si rasenta la genialità, alimentata da un allestimento scarpiano non compreso) due leoncini stanno lì, tristi tristi pure loro, ormai estenuati a forza di far da panchina improvvisata. Ma non è che sia la loro presenza a dar il nome a Porta Leoni? Bah… lì non c’è scritto niente. E poi: non si può mica star lì ad onorare tutti i sassi di Verona!
1 Cfr. Brugnoli P., Sandrini A., L’Architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, Banca Popolare di Verona, 1994, p. 437.
2 Per un elenco dei rinvenimenti i durante le campagne di scavo del 1930 e del 1999 vedi il fascicolo Tempio di Giove Lustrale presso l’archivio della Soprintendenza Archeologica di Verona.
3 Emilio Moretto, partigiano durante la Resistenza e autore dell’assalto al carcere degli Scalzi nel 1944.