È una giornata fredda e bigia, il 27 novembre 1975, quando a Bussolengo si inaugura il primo ipermercato del Veneto, La Città Mercato, un nome che leggiamo oggi come oscuro presagio di quello che di lì a poco si sarebbe delineato come il futuro predestinato della città. Il Gruppo Rinascente sperimenta a Bussolengo un format caratterizzato non solo dalle ampie dimensioni di vendita ma soprattutto dalla varietà dell’assortimento a self-service, dalla decentralizzazione urbana e dagli ampi spazi di parcheggio. L’apertura è accompagnata da un coro di proteste dei commercianti della zona che vedono messi in pericolo i propri interessi, ma anche dagli strali dell’amministrazione comunale che sottolinea come la calmierizzazione dei prezzi portata dalla grande distribuzione possa essere elemento trainante del processo di modernizzazione del commercio. Le logiche localizzative sono oggi difficilmente ricostruibili, ma certo la prossimità alla città, il basso costo dei terreni e la spregiudicatezza degli amministratori locali innescano la prima miccia di un esplosione a catena che ancora oggi non cessa di lasciar segni.
Mentre il primo edificio, su progetto dell’ufficio tecnico del Gruppo Rinascente, si configura come un mero contenitore senza nessuna pretesa estetica, una “scatola” con una superficie complessiva di 15.000 mq, di cui 8.000 per la vendita e i rimanenti per la Galleria commerciale e i depositi, quello che all’epoca fu sicuramente sottostimato fu il ruolo che questo nuovo modello di vendita andava a rappresentare, e cioè l’idea di un territorio bersagliato da “frammenti” non solo fisici, ma anche economici e sociali, specializzati nella distribuzione commerciale. Infatti, se da un lato ci si posero allora poche domande sulle questioni viabilistiche e di accessibilità, si introdusse per la prima volta l’idea che il commercio non fosse parte dell’organismo città, ma che fossero la città e i suoi cittadini a piegarsi alle logiche della distribuzione: come recitava la pubblicità sui quotidiani locali di quel 27 novembre, “se vuoi un loden per bambini a metà prezzo, vieni alla Città Mercato!” È l’inizio di un percorso che farà strada: il cittadino subisce i disagi della delocalizzazione in cambio di un vantaggio economico, e quindi si trasforma per la prima volta da “soggetto civile” a “fruitore”.
La stortura viene immediatamente percepita, e già nel 1987 la nascita del Centro Commerciale Verona Est proverà ad aggiustare il tiro. Il Verona Est occupa una superficie di circa 17.000 mq di cui 12.200 di GLA (Gross Leasable Area, superficie commerciale utile), e si differenzia dal suo predecessore per una maggior accuratezza progettuale, per la distribuzione su due piani e, soprattutto, per l’aumento di funzioni connesse, non solo il commercio ma anche l’uso turistico, con un albergo, e terziario, con due elementi a torre per uffici. Persiste tuttavia l’idea che il territorio esterno alla città sia terreno di naturale collocazione di questi grandi contenitori, dando inizio in quegli anni a quella che sarebbe stata definita la “città diffusa”, una visione del territorio, cioè, che rinnega il confine interno/esterno e il confine tra funzioni, che polverizza l’abitato e segna il territorio con pesanti fasci di infrastrutture della mobilità, energetiche, idrauliche.
È sulla scia di questa immagine che nasce nel 1996 il terzo grande centro dell’hinterland veronese, La Grande Mela. Ormai Verona è avvezza alla frequentazione di queste strutture, e tuttavia il nuovo caso segna un ulteriore scarto con i predecessori: si percepisce che il moltiplicarsi del modello pone il rischio della competizione, e quindi ogni nuovo edificio deve essere più “appetibile” dei precedenti, più “bello” (!), più grande, più visibile, più comodo, più articolato nelle funzioni, più invitante, più mirabolante nel décor. Non solo pubblici esercizi, supermercati, sportelli bancari, ma anche cinema e ristoranti, una città alle porte della città, perseguendo l’idea di trasformare il cittadino in fruitore di un enjoyment regimentato dall’obbiettivo della vendita. E i cittadini abboccano: all’inaugurazione dell’11 luglio 1996 ci sono migliaia di persone e moltissime personalità, dal parroco di Lugagnano al Sindaco di Sona, tutti a brindare all’insediamento di questo nuovo “maniero fortificato” di 38.400 mq, oltre ai 55.000 mq di parcheggio esterno, costituito da un unico massiccio corpo di fabbrica interrotto da “torri di guardia” che sottolineano gli ingressi.
Ma i competitors sono alle porte, e nessuna parte di territorio può essere risparmiata da questa frenesia che ha, evidentemente, un carattere metropolitano nel collocare i suoi oggetti nei nodi intermodali di accesso alla città: nello stesso anno 1996 apre le porte anche il Centro Commerciale Verona Uno che, con i suoi 38.000 mq, è la risposta dei comuni della parte sud (San Giovanni Lupatoto) agli insediamenti a est e a ovest della città. Lo scarto con i progetti precedenti si ha anche sul fronte dei progettisti: se il progetto della Città Mercato era redatto dall’Ufficio Tecnico interno alla società Rinascente, e quello del Verona Est dagli studi veronesi dell’architetto Otto Tognetti (prima piastra) e dell’ingegnere Fiorenzo Righetti (seconda piastra e completamento), per i due nuovi centri degli anni ’90 ci si affida a figure di tecnici più complesse, a studi che si vanno specializzando nella progettazione commerciale a grande scala: il milanese Gruppo Policentro Engineering & Service per La Grande Mela, e lo studio vicentino Gabbiani & Associati per il Verona Uno, perché il progetto di un centro commerciale ormai non è che marginalmente un progetto di architettura ma molto di più un progetto di marketing, di visual strategy, di business planning e, al limite, di ingegneria strutturale.
La tempestiva regolarità ciclica che vede sorgere un nuovo centro commerciale a Verona ogni dieci anni non si fa minimamente lambire dalla crisi degli anni 2000, ed ecco che, puntuale, nel 2005 sorgono Le Corti Venete, su progetto dello studio veronese A.70-Michele Segala Roberta Corradini. E qui il gioco si fa duro, perché la localizzazione del nuovo centro fa tremare le vene ai polsi alla GDO veronese: collocato esattamente all’uscita del casello di Verona Est, bello e roboante quanto basta per far sfigurare la mise di tutti i suoi rivali, con una GLA di 31.200 mq, allarga realmente il suo bacino di influenza a dimensioni extra provinciali collocandosi ai primi posti regionali per affluenza.
Il panico serpeggia tra gli operatori, e inizia la gara a rifarsi il look di tutti gli altri. Comincia il Verona Uno che nel 2008 amplia gli spazi commerciali con un progetto, sempre firmato Gabbiani & Associati, che porta la superficie di vendita fino a 55.000 mq. Lo segue La Grande Mela che, su progetto dello Studio di Architettura Iglis Zorzi, attua un rinnovamento in tre fasi a partire dal 2015 interessando dapprima le gallerie commerciali interne, poi la realizzazione di una “pelle” esterna sagomata in acciaio zincato a doppia lama, e infine un nuovo sistema di illuminazione a led che prevede il montaggio di centinaia di corpi illuminanti per creare differenti effetti luminosi sulla facciata. Infine anche la ‘vecchia’ Città Mercato, entrata nel frattempo nel gruppo francese Auchan e già rimaneggiata a metà degli anni ’90 per stare al passo coi tempi e con le mode, si rifà il maquillage su progetto dello studio milanese L22, ampliando nel 2016 le superfici di vendita da 8.000mq a 18.000 mq, riprogettando completamente l’immagine del punto vendita e, soprattutto, abbandonando definitivamente il vecchio nome per trasformarlo in un più sciovinista Porte dell’Adige.
Il tema comune a questi interventi è la sbandierata attenzione all’ecosostenibilità, cavallo di battaglia di numerose politiche speculative che si lavano la coscienza tra pannelli solari, recupero dell’acqua piovana e colonnine per la ricarica delle auto elettriche. Nemmeno la “piantumazione di 300 alberi autoctoni” può far perdere di vista il fatto che ormai Verona è irrimediabilmente diventata una “città mercato”. Premono alle porte della città la realizzazione del superstore Bricoman, del Tosano a Forte Tomba, il progetto di un nuovo centro commerciale a San Martino Buon Albergo, ma anche, a pochi caselli di distanza, il Grand’Affi di Affi per non parlare degli ormai innumerevoli centri commerciali e ipermercati della provincia.
Ma intanto sono passati i fatidici dieci anni e Verona è pronta (?) per un nuovo centro commerciale. E questa volta la scelta della localizzazione spiazza veramente tutta la cittadinanza. La scelta delle ex officine Adige per l’apertura di Adigeo lascia ancora attoniti per una molteplicità di ragioni. Non vogliamo addentrarci sulle questioni di accessibilità viabilistica, sulla ricaduta sociale-economica-urbana di interventi di questo tipo su tessuti urbani fragili come il quartiere di Borgo Roma o ancora sull’opportunità di concentrare sull’asse di accesso alla città quattro strutture di grandi dimensioni, e cioè lo sfavillante Adigeo, il supermercato Esselunga fresco di cantiere, il nascituro Eataly agli ex Magazzini Generali, e, last but not least, il progetto approvato da tempo ma rimasto al palo per una grande struttura commerciale nell’area delle ex Cartiere, in un crescendo di criticità che incalza il comparto storico della città.
Quello che più fa riflettere, invece, è come sia cambiato totalmente il rapporto tra cittadini e offerta commerciale: nel 1975 andare alla Città Mercato era un viaggio un po’ avventuroso e “favoloso” che il cittadino era disposto a fare alla ricerca di “un loden per bambini a metà prezzo”, oggi il consumatore, detentore di un diritto incommensurabile, va lusingato con nuove attrattività, prima fra tutte, a sorpresa, la vicinanza al centro cittadino calando nel tessuto della prima periferia un oggetto “favoloso” proprio per il suo essere fuori scala, persino nel confronto con gli altri edifici della ZAI storica.
E anche se il mercato immobiliare suggerisce come unica attività redditizia la destinazione commerciale, è utile riflettere anche su un’altra questione. In Europa il modello dei centri commerciali sta, in realtà, già entrando in crisi per una serie di ragioni, dal moltiplicarsi di strutture molto simili e quindi per fenomeni di saturazione commerciale, al mutare del gusto dei consumatori che preferiscono tipologie diverse (da un lato i lifestyle center di stampo americano, dall’altro gli outlet) dall’espansione dello shopping digitale, al massiccio affermarsi della socializzazione telematica che non necessita di luoghi fisici di aggregazione (ammesso che i centri commerciali fossero luoghi di aggregazione e non, piuttosto, luoghi di assembramento).
Quello che più impensierisce è il residuo che questo fenomeno lascia nel tessuto extra urbano, e a Verona a questo punto anche urbano, delle nostre città. In Italia già vengono documentati casi di mega strutture abbandonate all’obsolescenza e all’incuria, i cosiddetti deadmall o ghostbox, come cicatrici di una passata ferita che fatica a rimarginarsi (ne abbiamo un esempio nell’est veronese con CasaMercato). In questa temperie storica ogni intervento sulla città deve fare i conti anche col tema della reversibilità e della convertibilità, così già si parla di interventi di recupero a posteriori o di azioni preventive volte a ridurre l’impatto delle nuove strutture sul contesto e a favorire futuri interventi di trasformazione o demolizione delle stesse. Si è persino coniato il termine di demalling per riferirsi alla nuova vita che devono prepararsi a vivere questi grandi contenitori. Insomma, sono passati vent’anni da quando «ArchitettiVerona» si occupò approfonditamente della questione dei centri commerciali (n. 29-30/1997), eppure dobbiamo ancora chiederci se le questioni allora sollevate abbiano trovato una qualche risposta o se, piuttosto, la matassa si faccia sempre più ingarbugliata.